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Circolo Culturale di Paderno Dugnano
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Torna la Festa-Festival: la parola chiave è LAVORO
Inchieste dal vivo e spettacoli,
concerti, laboratori, workshop e interviste.
Dal 12 al 15 settembre in
Triennale a Milano. Con una giornata in Statale.
https://27esimaora.corriere.it/il-tempo-delle-donne/
La prima volta che abbiamo parlato di lavoro al Tempo delle Donne era nel 2014, prima edizione. Dopo una sequenza imprevedibile e multipla di crisi, il mondo si è trasformato. Trasformazioni che, come durante la pandemia, hanno fatto ricorso alla capacità delle donne di resistere, curare, costruire. Ma, se ci chiediamo che cosa è cambiato in un decennio, facciamo fatica a vedere più spazio conquistato o anche solo una strada lungo la quale andiamo a superare le ingiustizie e le insensatezze che limitano la forza femminile.
Per questo vogliamo ripartire da
lì, dal Lavoro, e trovarci a raccogliere
idee e azioni possibili a un incrocio dove si incontrano educazione,
formazione, indipendenza economica in un nuovo equilibrio tra vita privata e
professionale.
In
Italia, i passi avanti sono stati pochi: rispetto al meglio dell’Europa,
con cui vogliamo confrontarci, abbiamo perso punti dagli anni ‘80. Soprattutto
se guardiamo a tutte le voci che compongono il quadro economico.
I tre grandi divari da colmare
sono sotto i nostri occhi e sono parte delle nostre giornate.
Il primo: nel nostro Paese
lavorano 52 donne su cento, la percentuale è cresciuta pochissimo rispetto alla
chiusura del divario culturale ormai acquisita (le ragazze si diplomano o
laureano prima e meglio dei coetanei).
Il secondo: nel settore privato
l’ora di lavoro di una donna viene pagata il 15,4% meno rispetto a quella di un
uomo, con differenze più accentuate nei settori strategici.
Il terzo: su 100 dirigenti le
donne sono soltanto 21, segno che anche in termini di carriera, nonostante la
legge sulla rappresentanza di genere abbia imposto un allineamento nelle
imprese quotate in Borsa, il divario resta enorme.
Solo
quando su questi tre parametri uomini e donne si dimostreranno pari/pari/pari
avremo fissato le basi di una reale equità. E quindi di una libertà
reale, quotidiana, diffusa - non solo teorica, scritta nella Costituzione e poi
congelata nei fatti.
Allora il Paese farà un balzo in
avanti: aumenterà il Pil di più punti, come è stato calcolato, e magari
diminuiranno gli indici di denatalità.
In ogni luogo del mondo dove le donne lavorano di più - e guadagnano quanto corrisponde al loro impegno - la fiducia nel futuro si salda alla volontà di mettere e lasciare al mondo più figli. Su tutto questo ci confronteremo il 12, 13, 14 e 15 settembre alla Triennale Milano durante la nuova edizione del Tempo delle Donne.
Come sempre,
ci muove la convinzione che un Paese migliore per le donne sarà un Paese
migliore per tutti e tutte.
Il cambiamento, che spesso sembra
spaventare il sistema Italia, si rivelerà un moltiplicatore di possibilità, di
percorsi, di scoperte individuali e collettive. Mai una sottrazione.
Ecco il programma che troverete
più dettagliato nel sito, con eventi LIVE e in STREAMING
Da Mario Draghi a Ilaria Capua, da Aldo Cazzullo a Gino Cecchettin, da Valerio Mastrandrea a Monica Guerritore, da Angelina Mango a Francesca Michielin, da Piero Pelù a Matteo Maria Zuppi e molti, moltissimi altri
https://27esimaora.corriere.it/il-tempo-delle-donne/2024/programma/
La Speranza è il tema dell’undicesima edizione del Festival della Comunicazione di Camogli (GE), che si terrà da giovedì 12 a domenica 15 settembre.
http://www.festivalcomunicazione.it/
Il
filosofo Maurizio Ferraris riflette
su uno dei sentimenti più sfuggenti.
SIAMO UMANI. SPERIAMO.
La fiducia nel futuro è un dono oscuro, ma è ciò che ci
distingue dai computer.
«Ho assiduamente cercato di
imparare a non ridere delle azioni degli uomini, a non piangerne, a non
odiarle, ma a comprenderle». Ecco una delle frasi più celebri di Baruch
Spinoza, ma anche più famosa è la confutazione che ne fa Friedrich Nietzsche,
per il quale il comprendere è la somma di questi impulsi contrastanti. Chi ha
ragione? Tutti e due: il primo descrive l’Intelligenza artificiale, il secondo
quella naturale. Ed è dunque da Nietzsche che dobbiamo prendere l’avvio per
capire che cosa facciamo quando pensiamo. Giacché pensare non è solo calcolare,
come vogliono alcuni, ma nemmeno semplicemente provare delle emozioni, come
credono altri, ma un amalgama di fattori, alcuni ovvi, altri forse un po’ meno.
Proviamo a elencarli.
Incominciamo dalla sensibilità.
Si tratta di un elemento onnipresente nella nostra esistenza, dalla nascita
alla morte, e in tutto quel corso di vita determina il nostro essere nel mondo.
Ora, questo essere nel mondo non è semplicemente contemplazione, anzi, in
effetti non lo è quasi mai. È ricordo, attesa, piacere e dispiacere, tutti
elementi che non si possono trovare in un automa. E che fanno parte, sin
dall’inizio, dell’intelligenza, del pensiero, che è, anche, toccare dei picchi
e cadute di desiderio, tentazione e resa, come scriveva Joseph Conrad, o delle
fitte di rimorso, riprendendo Vittorio Sereni.
Poi c’è la finalità. Non è
necessaria una grande sottigliezza filosofica per capire che la mancanza di
senso costituisce una grave lacuna esistenziale; per riprendere ancora una
volta Nietzsche, teorico e cavia della mancanza di senso, è meglio un senso qualsiasi
che nessun senso. Ora, che cosa fa sì che il senso, la direzione, il possesso
di fini sia così importante perché la vita sia tale? Semplicemente il fatto che
la vita, come processo storico e biologico, segue un percorso, una direzione,
dalla nascita alla morte. Questa è una caratteristica che equipara gli umani a
ogni altro animale, ma apre un abisso tra gli organismi e i meccanismi. Questi
ultimi sono certo programmati per un fine, ma si tratta di una finalità che
viene dall’esterno, e che di per sé non suscita né richiede alcuna volontà: un
coltello non proverà mai il desiderio di tagliare, perché ciò avvenga è
necessario l’intervento di un agente umano. Il quale non ha tratto la propria
volontà da niente, se non dal fatto di vivere, di essere inserito in un
processo organico e in un mondo in cui esistono coltelli e oggetti da tagliare,
nonché ragioni per farlo.
Abbiamo parlato di ragioni, e con
questo chiamato in campo la razionalità. Che non è un semplice ragionare, un
far di conto con il pensiero, ma è definire un orizzonte di motivazioni, come
quando ci si chiede per quale ragione qualcuno abbia fatto qualcosa. In questo
senso, a torto la ragione viene considerata come il contrario della volontà: ne
è il coronamento. Ci sono stati di grazia e trasparenza in cui la pulsione
diventa ragione, e determina il fine, il modo e il valore di un obiettivo.
Inutile dire che poco di tutto ciò si può trovare nell’animale non umano, se
non altro perché è un bene, o una condizione, rara e accidentata nello stesso
animale umano; e che sarebbe vano cercare qualcosa di simile nella macchina,
che, come tale, riceve i propri fini soltanto dall’esterno.
I meccanismi mentali
Pensare non è solo calcolare né
solo provare delle emozioni, ma un amalgama di fattori
Se questa è la ragione, bisogna
chiarire la natura della volontà, che abbiamo appena chiamato in causa. Uno dei
più celebri, anzi, proverbiali, detti filosofici, è l’appello di Antonio
Gramsci all’ottimismo della volontà e al pessimismo della ragione. È una
sentenza che coglie una intuizione psicologica molto viva.
Ci sono tante situazioni in cui,
affidandosi alla ragione, sembra che non ci sia alcun motivo per sperare
(teniamo da conto questo verbo, ci tornerò fra poco). Tutte le strade sembrano
sbarrate, i conti sono chiusi, a nostro svantaggio, e rien ne va plus.
Malgrado questo, se seguiamo la contrapposizione fra ragione e volontà,
quest’ultima continua a darci dei suggerimenti e vuole indurci a provare
ancora. Ma se davvero questo sforzo fosse senza ragione, allora la volontà si
rivelerebbe una cattiva consigliera. In realtà, quello che chiamiamo «ottimismo
della volontà» è una ragione come facoltà dei fini che non si rassegna al
pessimismo o alla depressione, e che ci spinge a compiere ancora uno sforzo, a
spingere e a tendere ancora in una direzione, a non disperare, anzi, a sperare.
E qui veniamo all’ultimo punto,
che riguarda la speranza. Una volta, scrivendo a un amico ed ex collega di
università, Erwin Rohde, Nietzsche, che ormai da anni aveva abbandonato la
professione e si era impegnato in un avventuroso errare, confessò che non gli
pareva vero di essere stato un tempo anche lui un filologo, di essere
appartenuto a quella razza di «animali speranzosi». In realtà, neanche i meno
inclini, non dico alla filologia, ma alla fede e alla carità, riescono a fare a
meno di questa terza virtù teologale che è la speranza, e la prova ne era
proprio Nietzsche, che scriveva quelle righe dal fondo della disperazione. La
speranza è un elemento costitutivo del pensiero, proprio come la disperazione è
il pensiero nel suo stato terminale.
Elementi in comune
Condividiamo con gli animali il
dolore, la felicità, il lutto. Non è certo che condividiamo la noia
Ed è un elemento eminentemente
umano. Condividiamo con castori, oche e gatti la sazietà, l’abitudine, il
dolore, la felicità, il lutto. Non è certo che condividiamo la noia. Ancora
meno certo è che gli animali non umani possiedano quel dono oscuro e talvolta
spietato (perché può ingannare, fallire, o dileguarsi nella depressione) che è
la speranza: l’attesa di qualcosa che venga dal futuro e che ci salvi dando
senso al presente e al passato, redimendo fatiche, fallimenti e malinconie.
Ora, ciò che offre l’intelligenza artificiale non sembra essere la speranza, o
meglio, se la dà non è perché la possegga in proprio, ma in quanto può far
sperare o disperare qualche umano.
Ecco dunque che cosa significa pensare: sentire, aspirare, volere, ragionare, darsi dei fini, e soprattutto sperare, o disperarsi. Qualcosa, o molto, di tutto questo si manifesta negli animali non umani.
Nulla invece rimane agli automi. Ecco qualcosa in cui non
dobbiamo sperare o disperare, riservando questi stati d’animo, con i loro
altalenanti riflessi, alla nostra condizione umana.
Il
Festival della Comunicazione di Camogli, di cui Umberto Eco è considerato il padre nobile, prevede oltre agli incontri e alle “lectio”
anche laboratori, mostre, dialoghi e spettacoli serali.
Parole O_Stili, un progetto
sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole
https://paroleostili.it/, pubblica il libro
‘Virtuale è reale - Aver cura delle parole per aver cura delle
persone’
Partendo proprio dal primo
principio del Manifesto, Virtuale è reale, Giovanni Grandi ripercorre i
dieci princìpi del decalogo evidenziando le diverse problematiche della
comunicazione e stimolando l’approfondimento.
Dieci spunti di riflessione e
discussione, in cui si intrecciano fatti di cronaca, esperienze di vita
comune e intuizioni offerte da pensatrici e pensatori antichi e contemporanei,
per chi desidera affrontare con semplicità e profondità la sfida etica
dell’integrazione tra remoto e presenza nelle interazioni e nelle relazioni.
Leggi qui il primo capitolo del libro
L’Autore: Giovanni Grandi è professore associato di Filosofia Morale presso all’Università degli Studi di Trieste. È membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto Internazionale Jacques Maritain, del Consiglio Scientifico del Centro Studi sulla Sofferenza Urbana – SOUQ di Milano. Dirige la Scuola di Antropologia applicata dell’Istituto Jacques Maritain. È direttore, insieme a Luca Grion, dell’annuario di filosofia “Anthropologica” (Ed. Meudon) e membro della Direzione della rivista “Dialoghi”, trimestrale dell’Azione Cattolica Italiana. È tra i fondatori dell’iniziativa “Parole O_Stili” per la promozione di stili di comunicazione non violenti online (paroleostili.com). È autore di numerosi studi scientifici e saggi divulgativi in antropologia e filosofia morale.