giovedì, agosto 31, 2017
Debito d'amore
Ecco il nuovo libro della concittadina Meri Gorni.
Lo consiglio per l'autenticità e profondità della scrittura e della ricerca. Buona lettura!
Se la povertà è una colpa
Il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine.
di EZIO
MAURO (Repubblica 26 Agosto).
Dai casi di
cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti
politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte
da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è
difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra
l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong
di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo
sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante.
La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere.
Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.
Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli.
Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano.
Stiamo assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata. La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il “bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.
L’altra asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere.
È chiaro che una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione, non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza.
Siamo ancora in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio di azioni “esemplari” che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il nullismo della politica.
La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere.
Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.
Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli.
Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano.
Stiamo assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata. La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il “bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.
L’altra asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere.
È chiaro che una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione, non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza.
Siamo ancora in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio di azioni “esemplari” che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il nullismo della politica.
sabato, agosto 19, 2017
lunedì, agosto 14, 2017
Il dovere di restare umani
di ENZO
BIANCHI, La Repubblica, 11 agosto 2017
L’invito
del presidente della CEI, cardinal Bassetti, ad affrontare il fenomeno dei
migranti “nel rispetto della legge” e senza fornire pretesti agli scafisti è un
richiamo all’assunzione di responsabilità etica ad ampio raggio nella temperie
che Italia e Europa stanno attraversando. Un richiamo quanto mai opportuno
perché ormai si sta profilando una “emergenza umanitaria” che non è data dalle
migrazioni in quanto tali, bensì dalle modalità culturali ed etiche, prima
ancora che operative con cui le si affrontano. Non è infatti “emergenza” il
fenomeno dei migranti – richiedenti asilo o economici – che in questa forma
risale ormai alla fine del secolo scorso e i cui numeri sia assoluti che
percentuali sarebbero agevolmente gestibili da politiche degne di questo nome.
E l’aggettivo “umanitario” non riguarda solo le condizioni subumane in cui
vivono milioni di persone nei campi profughi del Medioriente o nei paesi
stremati da conflitti foraggiati dai mercanti d’armi o da carestie ricorrenti,
naturali o indotte. L’emergenza riguarda la nostra umanità: è il nostro restare
umani che è in emergenza di fronte all’imbarbarimento dei costumi, dei
discorsi, dei pensieri, delle azioni che sviliscono e sbeffeggiano quelli che
un tempo erano considerati i valori e i principi della casa comune europea e
della “millenaria civiltà cristiana”, così connaturale al nostro paese.
È un
impoverimento del nostro essere umani che si è via via accentuato da quando ci
si è preoccupati più del controllo e della difesa delle frontiere esterne
dell’Europa che non dei sentimenti che battono nel cuore del nostro continente
e dei principi che ne determinano leggi e comportamenti. È un imbarbarimento
che si è aggravato quando abbiamo siglato un accordo per delegare il lavoro
sporco di fermare e respingere migliaia di profughi dal Medioriente a un paese
che manifestamente vìola fondamenti etici, giuridici e culturali
imprescindibili per la nostra “casa comune”.
Ora noi,
già “popolo di … navigatori e trasmigratori”, ci stiamo rapidamente adeguando a
un pensiero unico che confligge persino con la millenaria legge del mare
iscritta nella coscienza umana, e arriva a configurare una sorta di “reato
umanitario” o “di altruismo” in base al quale diviene naturale minare sistematicamente
e indistintamente la credibilità delle ONG e perseguirne l’operato, affidare a
un’inesistente autorità statale libica la gestione di ipotetici centri di
raccolta dei migranti che tutti gli organismi umanitari internazionali
definiscono luoghi di torture, vessazioni, violenze e abusi di ogni tipo,
riconsegnare a una delle guardie costiere libiche quelle persone che erano
state imbarcate da trafficanti di esseri umani con la sospetta connivenza di
chi ora li riporta alla casella-prigione di partenza.
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