Lidia Poët fu la prima donna a
ottenere, nel Regno d’Italia, l’iscrizione nell’albo degli avvocati, nel 1883,
venendone tuttavia cancellata subito dopo in seguito all’accoglimento di una
richiesta presentata al tribunale d’appello di Torino dal procuratore generale
del re, secondo il quale sarebbe stato alquanto «disdicevole e brutto veder le
donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei
pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle
quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al
sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex
professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli
stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste».
Poët era nata a Perrero (Torino)
da una famiglia valdese, si era laureata due anni prima a pieni voti con una
tesi dal titolo “Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto
costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni” e aveva poi
svolto il praticantato a Pinerolo, presso lo studio del senatore Cesare Bertea,
evidentemente di vedute progressiste.
La sua cancellazione dall’albo,
confermata poi anche dalla Cassazione
a cui essa era ricorsa, suscitò, come prima la sua iscrizione, ampie
polemiche e un vasto dibattito, ma non ci fu nulla da fare contro il radicato
pregiudizio dell’infirmitas sexus: se per lo Statuto Albertino, art. 24,
tutti i regnicoli erano uguali dinanzi alla legge, ciò però non risolveva il
problema della “minorità naturale” femminile.
D’altronde, come ancora notava il
procuratore generale, quale immenso pericolo avrebbe corso la magistratura
«ogni qualvolta la bilancia della giustizia» avesse dato ragione alla parte
perorata da «un’avvocatessa leggiadra»?
Alla Cassazione non rimase che
equiparare l’avvocatura a una carica pubblica, il cui esercizio per legge era
precluso alle donne, e chiudere così per parecchi decenni l’incresciosa
questione.
Poët non era sola: numerose altre
donne, verso la fine dell’Ottocento e nei primi del secolo successivo, in tutta
Europa e in America, stavano percorrendo la stessa sua strada, con esiti più o
meno fortunati.
Negli Stati Uniti, divennero
avvocatesse Arabella Mansfield nel 1869 e Clara Shortridge Foltz nel 1878;
In Canada lo sarebbe divenuta nel
1897 Clara Brett Martin;
In Belgio ci provò senza
riuscirci Marie Popelin nel 1888;
In Germania si laureò per prima
in legge nel 1897 Anita Augspurg, anche lei senza poter però esercitare;
In Francia, Olga Petit e Jeanne
Chauvin divennero avvocatesse entrambe nel 1900; e ancora numerose altre.
Si trattava quindi di un
movimento piuttosto vasto, femminista, coniugato a quello per il suffragio
universale, che riceveva anche un certo sostegno da parte dell’opinione
pubblica, ma che avrebbe iniziato a raccogliere i suoi frutti solo nel corso
della prima metà del Novecento.
Poët continuò di fatto a
esercitare la professione nello studio del fratello, che sempre l’aveva
appoggiata, senza ovviamente firmare gli atti;
Prese parte nel 1883 al primo
Congresso penitenziario internazionale, divenendone delegata nel 1890 a
Pietroburgo; continuò inoltre a battersi per la causa femminile e il voto.
Quando, poi, finalmente nel 1919
venne emanata la cosiddetta legge Sacchi (Norme circa la capacità giuridica
della donna), grazie alla quale le donne venivano ammesse a esercitare
tutte le professioni e a coprire (quasi) tutti gli impieghi pubblici,
ultrasessantenne, Poët poté finalmente riscriversi all’albo assieme alla più
giovane e altrettanto combattiva Teresa Labriola.
Nel 1946, infine, poté esercitare anche il diritto al voto,
per il quale tanto si era battuta.
Morì, all’età di 94 anni, tre anni più tardi.
Ma nel 1957, Eutimio Ranelletti, presidente onorario della Cassazione, nel suo libro "La donna giudice, ovverosia la grazia contro la giustizia" scriveva ahimè ancora così:
«La donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti»