venerdì, luglio 25, 2025

Milano, tasse ai minimi per i milionari e case a prezzi record: il 40% delle vendite sopra il milione e il «modello Ronaldo» di Federico Fubini

 


Nel capoluogo lombardo il 40% delle vendite di alloggi sopra il milione. Il «modello Ronaldo»: avrebbe dovuto al fisco italiano più di 43 milioni, se l’è cavata con 100 mila euro.

L’Italia è tornata a crescere dello zero-virgola, come ha fatto per gran parte di questo secolo. Eppure c’è un angolo del Paese che viaggia ad una velocità diversa: il prezzo medio di vendita degli immobili di lusso nelle aree più pregiate di Milano fra il 2021 e il 2024 è salito del 57%, a quasi 27 mila euro a metro quadro

Nella zona del quadrilatero della moda i prezzi sono saliti del 54% fino a un valore a metro quadro, 39 mila euro, sette volte più grande di quello medio degli immobili a Milano e diciotto volte più di quello medio del Paese (secondo il sito Mercato immobiliare). Forse è il portato inevitabile della globalizzazione, con i suoi paradossi: il risparmio si accumula soprattutto nella parte in assoluto più abbiente della società, non fosse che per i rendimenti superiori dei patrimoni quando questi sono grandi, fino a generare un’inflazione specifica dei beni dei ricchi.

Secondo Marco Tirelli, un importante intermediario di case di lusso a Milano — a cui si deve la stima sulla crescita di quello specifico settore — dal 2015 in città l’inflazione del mattone di livello medio-basso è stata del 7%, ma su quello medio-alto del 20%. Anche per la buona borghesia dunque la progressione è di poco più di un terzo, rispetto alla fascia altissima. Le distanze di allargano ovunque, in mille modi.

Eppure nella capitale economica d’Italia, ora che il suo modello immobiliare è all’attenzione della magistratura, queste distanze pongono domande anche più serie. Perché è noto che nella globalizzazione vincono i poli urbani che attraggono conoscenza, talenti, investitori, capitali. Paul Krugman, l’economista premio Nobel, lo chiama «effetto di agglomerazione». Succede quando una città assorbe cervelli e risorse verso di sé dal resto del Paese o del mondo: San Francisco per il digitale, Londra per la finanza o il biotech, Milano per l’Italia. Ma non solo per essa. Perché la gara della globalizzazione — è l’assioma da inizio secolo — la si vince conquistando le persone che più la incarnano.

Solo in Europa esistono una trentina di schemi per attrarre ricchi dal resto del mondo. E dal 2017, dapprima innescato dal governo di Matteo Renzi, anche l’Italia ha il suo: una «tassa piatta» a 100 mila euro per un quindicennio per chi ha aderito fino all’anno scorso, a 200 mila euro da quest’anno, su tutti i redditi esteri di contribuenti che prendono residenza in Italia. Basta essere stati fiscalmente fuori dai confini per nove degli ultimi dieci anni. Ovvio che servono redditi sostanziali all’estero, per trovare l’idea interessante. 

Quando si è trasferito alla Juventus nel 2018, Cristiano Ronaldo aveva un centinaio di milioni di redditi esteri grazie alle sponsorizzazioni. Avrebbe dovuto lasciare all’erario italiano più di 43 milioni (o una quindicina di milioni nei regimi più favorevoli d’Europa). Invece se l’è cavata con 100 mila euro, un’aliquota effettiva dello 0,1%. Non solo questo: lo stesso sistema esenta i «neo-residenti» da qualunque tassa su donazioni e successioni, dal prelievo fisso di 0,2% sugli investimenti esteri di portafoglio e dall’1% sugli investimenti esteri in immobili.

Vallo a spiegare ai milioni di italiani del ceto medio e medio-basso che stanno pagando 25 miliardi di tasse in più perché il (parziale) adeguamento di buste paga e pensioni all’inflazione li fa scivolare verso aliquote Irpef più alte, mentre il loro potere d’acquisto cala. 

Vai a capire, soprattutto, che effetto fa questo spicchio di paradiso fiscale all’italiana sul mercato immobiliare di una Milano intaccata dalle inchieste.

C’entra qualcosa il «sistema-Ronaldo» con quel più 57% sugli immobili di primissima fascia, ma soprattutto con il più 13% dei prezzi medi milanesi dal 2015 che pure taglia fuori troppe famiglie che lavorano? 

Il sistema dei «neo-residenti» dal 2018 al 2023 ha attratto nel Paese almeno 4.500 soggetti ad altissimo reddito — se si elaborano i dati della Corte dei conti e del dipartimento delle Finanze — e Tirelli, l’agente immobiliare per il settore di lusso, stima che circa due terzi si siano stabiliti proprio a Milano. Affittano o comprano. 

Di certo circa il 40% delle transazioni su case dal prezzo sopra il milione di euro nel Paese avviene proprio nella sua città più dinamica.

Secondo Tirelli, l’impatto al rialzo del paradiso fiscale all’italiana si avverte solo sul segmento immobiliare più alto, dominato per tre quarti dai nuovi ricchi ospiti della città. Altri non sono così sicuri che si fermi lì. Alcuni sospettano che l’effetto psicologico trascini al rialzo, per emulazione, buona parte delle quotazioni. Ingrid Hallberg, un’altra mediatrice di case di pregio, nota che gli afflussi dall’estero fanno risaltare ancora di più la scarsità di un’offerta di mattone che non riesce a tenere dietro alla domanda.

Perché in realtà il regime di favore fiscale non vale solo per i ricchi. 

Introdotta sempre da Renzi, ma mantenuto da tutti i governi (con variazioni), c’è anche l’esenzione del 70-50% dell’imponibile per chi era rimasto fuori dall’Italia per due o fino a quattro anni. Sono 128 mila soggetti con redditi medi di 112 mila euro nel 2023, secondo il dipartimento delle Finanze, anch’essi concentrati spesso su Milano. E investono in mattone ciò che risparmiano in tasse, tagliando fuori chi sulle tasse non può risparmiare.

È la lotta per salvare la demografia di un Paese che in dieci anni ha perso due milioni di abitanti, chiaro. 

Ma non era più sano fare invece qualcosa di più perché circa duecentomila giovani non debbano lasciare il Paese a causa di salari e mansioni di lavoro umilianti?

giovedì, luglio 24, 2025

L’era digitale richiede responsabilità

di Luciano Floridi da "La Lettura" del Corriere della Sera del 20 Luglio 2025

In molti contesti si parla ancora di «tecnologie emergenti» e «nuovi media», come se il digitale fosse una novità. Ma la rivoluzione digitale è già avvenuta da decenni: è tempo di farla evolvere nella direzione che preferiamo. 

Siamo di fronte a un momento senza precedenti: a differenza delle rivoluzioni agricola e industriale, che richiesero millenni la prima e secoli la seconda per dispiegarsi, la trasformazione digitale sta avvenendo in pochi decenni. 

Lo stordimento è comprensibile, ma trattarla ancora come un’innovazione è un errore che rischia di diventare alibi per l’inazione. È oggi che plasmiamo le fondamenta ancora malleabili della società digitale futura. Dalla crisi nei rapporti internazionali ai cambiamenti climatici, dalla non equità economica alle migrazioni, dalle guerre alla violenza sulle minoranze, le soluzioni partono dalla politica e quindi anche dalla creazione di una società digitale migliore, trasformando il possibile in preferibile. Se non interveniamo ora, gli errori diventeranno sempre più difficili da correggere, e le opportunità mancate sempre più irrecuperabili.

Data questa premessa storica — la rivoluzione digitale è ormai un fatto storico in corso da decenni — e morale — dobbiamo gestirla ora e al meglio, foss’altro perché oggi è più facile che domani — è utile analizzare almeno tre architetture principali e quattro macro-tendenze che stanno definendo la struttura e il funzionamento delle società digitali, per comprenderne la natura profonda e dove si può intervenire.

La prima architettura è fattuale. I filosofi la chiamerebbero ontologica. La realtà diventa sempre più anche digitale ma soprattutto progettata per il digitale (digital-friendly): gli oggetti, i servizi, i processi, le infrastrutture, persino le persone e le loro interazioni vengono modellate e gestite per interagire fluidamente con sistemi digitali. Si pensi al mondo della formazione, del lavoro, dell’intrattenimento, oppure alla domotica, alle smart city, alle automobili a guida autonoma: lo spazio fisico diventa un ambiente ottimizzato per il digitale che non si aggiunge semplicemente a ciò che già esiste, ma ne trasforma la natura intrinseca. Le città sono piene di telecamere e sensori, trasformandosi in smart city che respirano dati. I nostri corpi sono interfacce e fonti di dati, costantemente avvolti da dispositivi che tracciano parametri vitali. I documenti nascono e muoiono in formato elettronico e vengono stampati su carta solo occasionalmente, per necessità specifiche o abitudine. Persino il denaro ha perso molta della sua fisicità: oggi è essenzialmente un flusso di informazioni che viaggia tra server e app

In questo contesto, termini come «infosfera» e «onlife», che ho introdotto molti anni fa, cercano di fornire il vocabolario adeguato a cogliere i nuovi fenomeni di un ambiente sempre più analogico e digitale al contempo, e una vita in cui essere o meno connessi non è più una reale opzione.

La seconda architettura è «agentica». In un mondo sempre più digitale, assistiamo da anni allo sviluppo di nuove forme di agency («agenzia» non si dice in italiano, e «capacità di azione» non rende bene l’idea), soprattutto con l’Intelligenza artificiale e la robotica, che trasformano radicalmente il concetto stesso di lavoro, produzione e decisione. 

L’IA guida veicoli autonomi, diagnostica malattie, crea contenuti di ogni genere, o decide chi riceve un prestito bancario. Amazon sta per impiegare più robot (oltre un milione) che esseri umani nei suoi magazzini. Queste tecnologie operano autonomamente, come agenti sociali ed economici. Un algoritmo di trading può comprare e vendere azioni in microsecondi, eseguendo migliaia di operazioni senza alcun intervento manuale. I chatbot e gli assistenti virtuali sono sempre più in grado di sostenere conversazioni complesse. Ci sembrano umani. Un sistema di raccomandazione online può influenzare le scelte di milioni di persone. 

Questa agency artificiale è priva di qualsiasi intelligenza — nel senso comune del termine, il resto è un dibattito semantico —, comprensione, interessi o intenzionalità. Purtroppo, il marketing delle grandi aziende che la promuovono, e la fede quasi religiosa di quelli che la sviluppano rendono necessaria questa chiarificazione. Ma — e questa è sì la cosa straordinaria — stiamo scoprendo che un’infinità di compiti che credevamo richiedessero intelligenza per essere svolti, di fatto possono essere affidati a sistemi statistici, se si hanno sufficienti dati, algoritmi, dollari, ed energia elettrica. 

Così l’IA sarà sempre più una forza lavoro indispensabile, distribuita ovunque si possa fare algoritmicamente quello che avrebbe richiesto un po’ d’intelligenza a un essere umano. Lo sviluppo di questa architettura agentica è reso possibile dalla digitalizzazione del mondo vista sopra. Agenti a intelligenza zero sarebbero un disastro in un mondo del tutto analogico, ma funzionano sempre meglio in un contesto sempre più digitale, disegnato per loro. Sono come pesci in un mare in cui noi, esseri analogici, possiamo solo immergerci grazie ad altre tecnologie di sostegno. Il QR code del menu di un ristorante non è scritto per essere letto da noi. 

Per questo, l’architettura agentica sta già rivoluzionando il mercato del lavoro, che soffre di disoccupazione non per mancanza di domanda — i posti di lavoro sono disponibili — ma per il mancato allineamento tra la domanda e l’offerta. Non si tratta quindi di adottare misure keynesiane per incrementare la domanda, ma di investire in formazione per migliorare l’allineamento. 

E infine, lo sviluppo e la diffusione dell’IA pone enormi interrogativi etici — dalla discriminazione all’opacità delle decisioni — un tema sempre più esplorato, ma che resta largamente irrisolto. Si può partire da quest’ultimo punto per introdurre 

La terza architettura, che è etico-giuridica e riguarda la governance della società digitale.

La società digitale necessita di nuove regole per gestire e indirizzare le trasformazioni in corso. 

L’AI Act europeo, gli Executive Order statunitensi, la Convenzione del Consiglio d’Europa sono alcuni degli esempi concreti più noti di come si stia cercando di regolamentare la complessità digitale, proteggendo al contempo i valori umani fondamentali e l’ambiente naturale. Non a caso, a livello globale si stanno moltiplicando gli sforzi per colmare questa lacuna. Negli Stati Uniti, pur con un approccio culturalmente diverso, più orientato all’innovazione e alla sicurezza nazionale, proprio in questo periodo il Senato ha fermato il tentativo dell’amministrazione Trump di impedire che i singoli Stati possano legiferare sull’IA e i suoi vari aspetti. 

È un fenomeno meno visibile dall’Europa ma macroscopico. Ne abbiamo discusso recentemente con i senatori dei vari Stati coinvolti ad un convegno che ho organizzato a Yale. Ma la sfida normativa va oltre gli aspetti legislativi; è una sfida intellettuale (direi filosofica, se il termine non fosse diventato dispregiativo) perché richiede il ripensamento e il rinnovamento di categorie che hanno fatto un buon lavoro in epoca moderna ma non sono più in grado di coprire il nostro deficit concettuale. 

Per esempio, in un mondo di sensori pervasivi, riconoscimento facciale e raccolta continua e capillare di dati, con sistemi IA che ci conoscono meglio di altre persone, il concetto tradizionale di privacy inteso come il diritto a essere lasciati in pace non è errato ma obsoleto. 

O si pensi al concetto di colpa: la catena della responsabilità nelle decisioni algoritmiche è opaca e sempre più difficile da risolvere. Infine, la nostra identità digitale, composta dai nostri profili social, dai dati di navigazione, dalle nostre impronte online, è ormai tanto reale quanto la nostra identità fisica. 

In questi come in molti altri casi, non basta «allungare la coperta moderna» per coprire i nuovi fenomeni etici e giuridici: c’è bisogno di innovazioni concettuali, nuove o rinnovate idee all’altezza delle sfide e dei problemi che dobbiamo affrontare. C’è bisogno di un design concettuale di alta qualità, partendo dal passato, ma non fermandosi a esso.

All’interno di queste tre architetture evolutive, emergono quattro macro-tendenze che ridefiniscono il presente e plasmeranno il futuro della società digitale.

  • La prima è l’eclisse dell’analogico, inteso come la realtà fisica, tangibile, e le esperienze umane non mediabili digitalmente. I modelli digitali, per quanto dettagliati, sono sempre astrazioni parziali della realtà. Un medico può conoscere perfettamente la cartella clinica di un paziente — ma si potrebbe usare l’esempio del profilo digitale di una studentessa, di un lavoratore o di una cliente — senza comprenderne la storia personale o il contesto socio-economico. Come ricordava Norbert Wiener, «il miglior modello di un gatto è un gatto, possibilmente lo stesso gatto». Confondere la mappa digitale con il territorio analogico significa perdere dimensioni essenziali dell’esperienza umana e quindi correre più rischi, in termini di errori e mancate opportunità.
  • La seconda macro-tendenza riguarda l’agency delegata alle macchine, che diventerà sempre di più una commodity (altra parola inglese che si traduce male) diffusa, accessibile, flessibile, a basso costo, un po’ come l’elettricità un secolo fa. A questo proposito vale la pena ricordare che l’elettricità impiegò circa mezzo secolo per passare da tecnologia sperimentale a infrastruttura urbana essenziale, tra il 1880 e il 1930, con le aree rurali in molti Paesi sviluppati non completamente elettrificate fino agli anni Cinquanta, e alcune regioni in via di sviluppo molto più tardi. Non aspettiamoci che l’IA impieghi solo mesi, ci vorrà ancora qualche anno. È difficile stimare quante persone usino una qualche forma di IA, e le aziende tendono a fornire dati ottimistici, ma si parla di circa 1,7-1,8 miliardi negli ultimi sei mesi, con 500-600 milioni di persone che la usano quotidianamente. Siamo ancora lontani dai 5,8 miliardi di utenti di telefoni cellulari, ma non troppo. Quando ogni telefono includerà IA app, l’accesso sarà sempre più diffuso e ordinario — democratizzato, dicono gli informatici, con un termine fuorviante — e la vera questione sarà come saperla usare e per quali scopi. Questa «democratizzazione» dell’agency artificiale può aprire opportunità straordinarie, accelerando l’innovazione, aumentando la produttività e permettendo la creazione di nuovi servizi, come la generazione di contenuti on-demand. Si immagini poter vedere un film creato per noi sulla base di poche righe di descrizione (prompt).
  • La terza macro-tendenza, solo apparentemente paradossale, è che in un mondo sempre più digitale il controllo delle infrastrutture fisiche, cioè dell’analogico, risulta ancora più decisivo. Anche in questo caso, qualche esempio è sufficiente. L’infrastruttura digitale dipende criticamente da materie prime strategiche: elementi come neodimio (una delle cosiddette «terre rare», fondamentale per la produzione di magneti), tantalio, cobalto e litio sono indispensabili per smartphone, server e componenti elettronici avanzati. La concentrazione di questi materiali essenziali — la Cina produce circa l’80% delle terre rare e il Congo il 70% del cobalto — crea vulnerabilità nelle filiere globali e forti dipendenze geopolitiche. La pervasività di cloud, IA e connettività comporta un consumo energetico in rapida crescita: si ritiene che i data centre da soli assorbano circa il 2% dell’elettricità mondiale, rendendo il sistema digitale vulnerabile ai blackout e alle oscillazioni dei costi energetici. La collocazione geografica dei data centre, una sorta di «cattedrali» dell’era digitale, segue logiche strategiche: energia a basso costo, climi freddi, stabilità politica. A marzo del 2025, l’Italia era all’ottavo posto per numero di data centre, dopo Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia, Australia, Paesi Bassi e Russia. Negli Stati Uniti, la più alta concentrazione di data centre si trova in Virginia, nella Contea di Loudoun, che gestisce circa il 70% del traffico internet globale. Un quarto dell’energia elettrica prodotta dallo Stato è consumato da servizi digitali. Inoltre, l’infrastruttura digitale si estende nello spazio e negli oceani: le costellazioni di satelliti in orbita bassa e la rete globale di cavi sottomarini costituiscono una nuova frontiera strategica, poiché chi le controlla può isolare intere regioni dal resto della rete. Infine, il quasi monopolio di Taiwan (produce oltre il 90% dei chip più avanzati) costituisce un rischio sistemico, che ha spinto Stati Uniti, Unione Europea, Cina e Giappone a investire centinaia di miliardi per aumentare la propria autonomia tecnologica.

In sintesi, il digitale, pur sembrando ed essendo pubblicizzato come immateriale, è reso possibile da un substrato fisico, fatto di hardware, infrastrutture e materie prime, che qualcuno possiede e controlla. Questa materialità del digitale ha profonde implicazioni per la sovranità nazionale del Ventunesimo secolo. Paesi che controllano nodi critici dell’infrastruttura fisica possono esercitare forme di «sovranità digitale» ben oltre i propri confini geografici. Al contempo, Paesi che dipendono interamente da infrastrutture estere si trovano in posizione di vulnerabilità strutturale, esposti a possibili pressioni economiche o restrizioni all’accesso. Così la corsa al controllo dell’infrastruttura fisica del digitale ridisegna le mappe del potere globale, creando nuove alleanze e rivalità che trascendono i tradizionali confini territoriali, in un paradossale ritorno alla geopolitica classica nell’era apparentemente più smaterializzata della storia umana.

  • La quarta macro-tendenza è la fusione sempre più marcata, e spesso opaca, tra il potere politico e quello digitale. Da un lato, aziende ricchissime, con miliardi di utenti, operano ormai come «quasi-Stati», esercitando un’influenza diretta e pervasiva sulle vite di popolazioni più vaste di quelle di molti Paesi tradizionali. Dall’altro lato, i governi sfruttano tecnologie digitali belliche e per la sorveglianza di massa per estendere il loro controllo ben oltre i limiti tradizionali della sovranità fisica. Le decisioni cruciali su come raccogliere e gestire i dati, come progettare ed esercitare algoritmi, o come esercitare e implementare l’IA sono spesso prese dai consigli di amministrazione delle big tech o negli uffici riservati delle agenzie governative, ma hanno conseguenze sistemiche per miliardi di persone. Questa commistione di potere, legata a enormi flussi di capitale, è sempre più politica.

Da quanto appena delineato derivano rischi sistemici che non possiamo permetterci di ignorare. 

Iniziamo con la vulnerabilità dell’elemento «analogico» — le persone, con le loro fragilità psicologiche e sociali, le comunità, e l’ambiente naturale — che resta sotto-protetto rispetto alla rapidità della digitalizzazione. Investiamo miliardi per proteggere reti e dati, ma trascuriamo la sicurezza anche psicologica delle persone online. Ottimizziamo l’efficienza algoritmica, ma sottovalutiamo competenze umane fondamentali come il pensiero critico, l’empatia e la creatività nei sistemi educativi. Automatizziamo e delocalizziamo la produzione, ma rischiamo di lasciare indietro intere comunità senza adeguati programmi di riconversione. Inoltre, una società sempre più interconnessa diventa anche più fragile di fronte ai nuovi pericoli.

C’è poi il rischio che il controllo del digitale, apparentemente immateriale e distante, si trasformi in una forma indiretta ma estremamente efficace di controllo sulle vite delle persone e sulle dinamiche della società analogica. Chi controlla gli algoritmi di raccomandazione, ad esempio, non si limita a suggerire un prodotto o un contenuto; orienta in modo impercettibile ciò che leggiamo, le nostre scelte, le notizie che riceviamo, le nostre opinioni anche politiche, e perfino, in alcuni casi, le persone che incontriamo o che ci vengono presentate. Chi gestisce le grandi piattaforme della gig economy — come i servizi di food delivery o le piattaforme di trasporto — determina le condizioni occupazionali di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Nei soli Stati Uniti, la gig economy coinvolge in vario modo 42 milioni di lavoratori nel 2025. Chi possiede e gestisce i dati sanitari di una popolazione può influenzare l’accesso alle cure, alle polizze assicurative, e persino alla ricerca medica e allo sviluppo di farmaci. Questo potere indiretto è spesso meno evidente rispetto alle forme tradizionali di dominio basate sulla forza o sulla proprietà fisica ma non per questo meno efficace.

Infine, c’è il rischio di un’oligarchia digitale, intrinsecamente non democratica, costituita da un piccolo gruppo di attori: alcuni Paesi con capacità digitali avanzate, le grandi aziende tecnologiche, e pochi individui, il famoso 1%. I vantaggi competitivi nel digitale tendono ad auto-rafforzarsi, innescando spirali di concentrazione della ricchezza e del potere. Questa dinamica, lasciata a sé stessa senza interventi correttivi consapevoli e robusti, conduce a monopoli o oligopoli tecno-politici pericolosi.

Di fronte a questi rischi, non possiamo permetterci né l’ottimismo ingenuo che crede che la tecnologia si autoregolamenterà — i mercati fanno bene una cosa sola su tre: la creazione della ricchezza, ma non la distribuiscono, l’accentrano, e non proteggono ma esacerbano i danni generati dalla sua creazione — né il pessimismo che porta alla rassegnazione o alla iper-regolamentazione. 

Il populismo ha dimostrato che anche in democrazie mature e avanzate tenere le dita incrociate non è una strategia. In politica si può iniziare da «va tutto male» ma non si può finire con «non c’è niente da fare». 

Per affrontare questi rischi, servono almeno tre strategie fondamentali. Nessuna è originale, tutte richiedono la volontà politica.

  1. Investire nella formazione diffusa e consapevole. Ogni generazione nasce ignorante ma ha l’obbligo morale di morire educata, usando quello che ha imparato e capito per vivere una vita migliore e creare migliori condizioni di vita per chi le succede. Ogni tecnologia fornisce anche i mezzi per la sua gestione. La stessa IA offre straordinarie opportunità per l’alfabetizzazione e la formazione digitale, che deve accompagnarsi a un’educazione civica adeguata. Si può fare, ma ciò implica la volontà di imparare e disimparare continuamente e rapidamente.
  2. Garantire un controllo democratico, responsabilizzato e trasparente dei processi digitali che incidono direttamente sulle vite dei cittadini. Questo significa anche rendere gli algoritmi più comprensibili e spiegabili, permettendo di capire come prendono le loro decisioni, quali dati utilizzano e quali criteri applicano, con sistemi di appello e rettifica. E creare nuovi strumenti di partecipazione e supervisione democratica all’altezza dell’era tecnologica. Anche in questo caso, il digitale ha potenzialità enormi e sottoutilizzate.
  3. Sviluppare una progettualità politica lungimirante e consapevole della società digitale. L’evoluzione tecnologica non dovrebbe procedere per inerzia di mercato o secondo logiche puramente ingegneristiche e di massimizzazione del profitto. Queste sono il motore necessario, ma le mani sul volante, e la decisione su dove andare, restano alla società e alla politica. Se ci piace la direzione presa, la velocità con cui si svilupperà la società digitale sarà benvenuta. Questo implica investimenti strategici in ricerca e innovazione orientate esplicitamente al bene comune, non solo al profitto.

In sintesi, solo con più e migliore conoscenza, democrazia, e politica potremo governare la transizione digitale anziché subirla. È questo il compito della nostra generazione. 
Riecheggiando Gramsci: la società moderna è finita, quella digitale è solo all’inizio. 
È in questa transizione che possiamo fare le scelte migliori. 
La storia si fa sempre oggi.

Luciano Floridi (Roma16 novembre 1964) è un filosofo italiano naturalizzato britannico, professore ordinario di filosofia ed etica dell'informazione presso l'Oxford Internet Institute dell'Università di Oxford, dove è direttore del Digital Ethics Lab, nonché professore di Sociologia della comunicazione presso l'Università di Bologna.
Floridi è principalmente conosciuto per il suo lavoro di ricerca filosofica riguardante: la filosofia dell'informazione, la filosofia dell'informatica e l'etica informatica e per aver coniato il termine Onlife.
Dal 28 gennaio 2025 è presidente della Fondazione Leonardo - Civiltà delle Macchine, succeduto a Luciano Violante.

mercoledì, luglio 23, 2025

LIBRO: "Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c'è" di Agnese Codignola

La malattia di Alzheimer colpisce in Italia più di una persona su cento, ed è in crescita. 
Praticamente non c'è famiglia che non abbia avuto esperienza, diretta o indiretta, dei crudeli effetti di questa patologia. Vedere svanire la mente dei propri cari, che giorno dopo giorno perdono contatto col mondo, senza più gusto per la vita, è un'esperienza emotivamente devastante e fisicamente faticosa. 

Alla disperazione della malattia si aggiunge l'inadeguatezza delle cure: come è possibile che dopo decenni di studi ancora non abbiamo un farmaco efficace, nonostante le cifre astronomiche spese nella ricerca biomedica e il coinvolgimento dei colossi di Big Pharma? 
La risposta a questa domanda non è affatto edificante e in molti sensi è scandalosa. 

Ci voleva l'ostinazione di una giornalista scientifica come Agnese Codignola per unire i puntini in maniera chiara e raccontare questa vicenda, una delle peggiori della scienza biomedica e dell'industria farmaceutica degli ultimi anni. 
"Alzheimer S.p.A." racconta in che modo i colossi farmaceutici e ampi settori accademici abbiano per almeno vent'anni seguito una linea di ricerca sbagliata, spesso sapendolo, osteggiando lo sviluppo di indagini su ipotesi alternative e più promettenti. 
È anche così che si apre la strada al proliferare di ciarlatani e guaritori, ai quali le famiglie disperate spesso si affidano. 

Ma questo libro parla anche di fiducia per i nuovi recenti sviluppi della ricerca. Abbandonato quasi completamente il vicolo cieco, la comunità scientifica dimostra ora di saper reagire, orientandosi verso nuove terapie, i cui dati preliminari lasciano ben sperare.

“L’antidoto alla sfiducia nella scienza è sempre la verità, o la migliore approssimazione a essa cui abbiamo accesso. Infine, se oggi il malato che ho visto morire senza risposte fosse ancora in vita, gli direi, senza tema di alimentare false speranze, di resistere, perché una soluzione, forse, è vicina.”


AUTORE:

Agnese Codignola, dottore di ricerca in Farmacologia all’Università di Milano, dopo sette anni nel campo della ricerca si è dedicata interamente all’attività giornalistica e divulgativa presso l’agenzia Zadig. 
Collabora con i principali gruppi editoriali italiani (Rcs, “Espresso-Repubblica”, “Il Sole 24 Ore”, “Focus-Mondadori”) occupandosi di salute, alimentazione, sostenibilità ambientale e scienza in generale. 
Ha vinto diversi premi, tra cui il premio giornalistico Expo 2015. 
Ha partecipato a TedxDarsena con la lezione La carne (coltivata) ci salverà? 
Nel gennaio 2017 ha pubblicato insieme a Michele Maio Il corpo anticancro, un saggio sull’immunoterapia seguito, nel 2018, da Lsd. 
Da Albert Hofmann a Steve Jobs, da Timothy Leary a Robin Carhart-Harris: storia di una sostanza stupefacente e, nel 2020, da Curare i bambini è la mia medicina, con Franca Fossati Bellani.

martedì, luglio 22, 2025

Il nido del cuculo, 50 anni dopo, vola ancora alto

Mezzo secolo fa il film di Milos Forman dal romanzo di Ken Kesey, entrò in un mondo di matti che forse tanto matti non erano. Anzi: matti non lo erano affatto. Jack Nicholson commosse il pubblico di tutto il mondo, e oggi "La Lettura" ha chiesto allo psichiatra-scrittore Paolo Milone che cosa c'è di vero in quella pellicola. E che cosa c'è di noi

«Ma chi diavolo vi credete di essere, vacca troia, pazzi davvero? E invece no, voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada». Questa, con le parole del doppiaggio italiano, è una delle sfuriate più memorabili, e per certi aspetti più fuorvianti, che Randle P. McMurphy (Jack Nicholson) rivolge alla banda dei compagni «picchiatelli» durante una disumanizzante seduta di gruppo guidata dalla gelida Infermiera Ratched. Qualcuno volò sul nido del cuculo è una di quelle opere che si definiscono «di culto», con i suoi riti e i suoi adepti. In Italia è disponibile su alcune piattaforme, qui sulla scrivania tengo una copia del Dvd comprato chissà quando, con la faccia di Randle-Jack che se la ride guardando in alto.

Alla radio pubblica americana Npr, pochi giorni fa, lo psichiatra Ken Duckworth, responsabile della National Alliance on Mental Illness, ha raccontato di avere visto il film poco dopo la sua uscita: «Avevo 17 anni e mio padre in quel periodo faceva avanti e indietro dall’ospedale per una grave forma di disturbo bipolare. La freddezza istituzionale e industriale di quel posto l’ho ritrovata nel film». Per Duckworth One Flew Over the Cuckoo’s Nest «getta lampi di verità sui sovraffollati istituti psichiatrici degli anni Sessanta». Però lascia ancora oggi uno strascico equivoco: «Per esempio quando parli con un paziente affetto da grave depressione sotto terapia farmacologica, e chiedi se ha mai provato con l’elettroshock (oggi praticato soltanto sotto anestesia, ndr), la risposta è: “Oh no. Ha visto cosa è successo a Jack Nicholson? Non permetterò che lo facciano anche a me”».

Effetti collaterali e sanitari di una storia «perfetta dal punto di vista cinematografico, e che inizialmente ha avuto un impatto culturale positivo nell’Italia che si apprestava a chiudere i manicomi», dice a «la Lettura» Paolo Milone, classe 1954, psichiatra e autore per Einaudi di due libri bellissimi che partono dalla sua esperienza di lavoro: L’arte di legare le persone (2021) e Una piccola fine del mondo uscito quest’anno.

«Fin dalla prima volta che lo vidi, avevo 22 anni e stavo ultimando la specializzazione all’università, trovai che c’era un elemento che stonava, che non tornava dal punto di vista medico. È un po’ come quando scrivo qualcosa di bello sotto l’aspetto narrativo e però mi accorgo che non corrisponde alla realtà, perché la realtà incespica continuamente, come posso dire?, la realtà è brutta, è zoppa, e invece la penna mi ha preso la mano. Allora cancello e riparto».

Fortuna che il regista Miloš Forman non ha fatto la stessa cosa, lavorando sul romanzo pubblicato da Ken Kesey nel 1962. Milone è d’accordo. Per «la Lettura» ha rivisto il film a 50 anni di distanza, e il sapore nella testa è lo stesso di allora: «Da spettatore mi è piaciuto molto. È una favola bellissima, ma c’entra poco con la psichiatria». Ricorda il giorno in cui ne parlarono a lezione, in clinica psichiatrica a Genova. Il professor Romolo Rossi, punto di riferimento nel mondo della psicoanalisi, disse agli studenti: «Avete visto il film, avete visto che cosa dice sul suicidio? Ma non ci si ammazza mica per quei motivi lì...». Rossi si riferiva alla storia del giovane Billy, il personaggio che, ripensandoci ora, più avrebbe interessato il Milone psichiatra. Ormai il film è così vecchio che probabilmente molti giovani non l’hanno visto e magari potrebbero farlo, perciò non è bello «spoilerare» più di tanto. Diciamo che Billy, come altri compagni (ed è questo che fa arrabbiare Randle: «Ma chi vi credete di essere, matti?») , si trova volontariamente nel reparto sotto le grinfie dell’inflessibile Infermiera Ratched: «Mai visto un personaggio così duro in tutta la mia vita lavorativa», dice Milone, che in qualche modo la salva come paziente nascosta dall’altra parte della barricata, sostenendo che «se una persona così ha scelto questo mestiere, non è solo per il gusto di fare la cattiva, ma perché ne aveva bisogno».

Nel libro da cui è tratto il film lei è ancora più dura: Kesey disse di essersi ispirato a una caposala incontrata in un centro per veterani dove aveva fatto il volontario, ma ammise di averne esagerato i tratti sadici. Il suo contraltare, Randle/Jack, è nel centro psichiatrico per essere esaminato: condannato a sei mesi per aver fatto sesso con una quindicenne (che a suo dire si era spacciata per maggiorenne), per evitare il bagno penale si è finto «picchiatello». Nella Hollywood di oggi un personaggio con un passato del genere non potrebbe diventare l’eroe «spirito libero» di cui parlò il «New York Times» dopo la prima, il 28 novembre 1975, in una recensione che pure bocciava il film come metafora mal riuscita dell’America in subbuglio degli anni Sessanta, salvo promuoverlo sul lato della «commedia umana», con quel gruppo di personaggi che, scriveva Vincent Canby, «sono variazioni di noi spettatori, se solo dovessimo superare la soglia di quella che viene chiamata sanità mentale».

Ecco un punto cruciale: Qualcuno volò non racconta la malattia mentale, dice Milone, «perché il paziente psichiatrico è dominato dal mondo interno, che è difficile da esplorare». Ed è fatto di quella realtà «zoppa, incespicante» che non si addice a una favola hollywoodiana. Miloš Forman ha fatto «un bellissimo film d’azione, che ti acchiappa. Una storia perfetta che arrivò culturalmente al momento giusto». Certo la riforma psichiatrica del 1978 in Italia, sostiene l’autore di Una piccola fine del mondo, non fu il prodotto della rivoluzione di un manipolo leggendario, né tanto meno il riflesso delle gesta eroiche di gente alla Randle/Jack Nicholson. Fondamentalmente la chiusura dei manicomi, che in un Paese di 58 milioni di abitanti ospitavano circa 90 mila persone, «fu resa possibile dal miracolo degli psicofarmaci», che intorno alla metà degli anni Cinquanta «venivano dati ai pazienti da una pentola, con il mestolo. Il manicomio diventò un luogo silenzioso, più tranquillo e dunque crebbe nella società e nella politica (una spinta importante la diedero i sindacati e i primi a manifestare furono a Genova) il movimento di chi chiedeva che i pazienti potessero stare fuori».

Certo oggi, ricorda Milone, in Italia per la salute mentale si spende meno di quando c’erano i manicomi (si è passati dal 5% al 3% della spesa sanitaria). Ma i malati restano: servono più fondi, cultura, servizi. A che cosa può servire allora rivedere un film come Qualcuno volò sul nido del cuculo? Per restare in tema, se si volesse capire di più attraverso un’opera di fiction quel «mondo interno» intorno al quale ruota il disagio psichiatrico, secondo Milone, bisognerebbe studiare semmai un altro Jack Nicholson immortale, quello psicotico e omicida di Shining («Wendy, tesoro, luce della mia vita») datato 1980. Tra cinque anni, per l’anniversario del mezzo secolo, prenotiamo Doc Paolo di Genova per un’altra visione da «piccola fine del mondo». Ma intanto, per il nostro bisogno di consolazione («Si esce dal film rinfrancati, non trova?», dice Milone), riflettiamo sull’avventura di Randle e Martini, Billy, Grande Capo e tutti gli altri «squilibrati» che valgono insieme 5 premi Oscar. Che personaggio, Grande Capo: Kesey nel libro racconta la storia proprio dal punto di vista del gigante soprannominato Chief, l’«indiano» che per autodifesa si finge sordo e muto, avulso da tutto. Nel film è la colonna a cui Randle/Jack strappa un sorriso e che gli procura un’estrema via d’uscita («Cosa ci facciamo qui io e te Grande Capo?»; «Non ti lascio qui così, ti porto con me»).

Di un film-culto, ciascuno ha le sue scene di culto preferite. La partita di basket tra pazienti e operatori, la telecronaca della finale di baseball, così immaginaria e così vera da irretire tutto il reparto dei «lunatici»: Randle si inventa ogni azione perché l’Infermiera Ratched non vuole accendere la televisione («Confax lancia, Richardson colpisce, il tiro è teso e fortissimo...»). E poi la meravigliosa fuga in barca, quando uno scatenato Nicholson con il cappellino e la ragazza al fianco porta tutti a pescare in mare. È dopo quella normalissima pazzia che il simposio dei medici stabilisce che McMurphy «è molto pericoloso».

Qualcuno volò non racconterà la psichiatria di ieri e di oggi. Sarà anche una favola. Ma sono passati cinquant’anni, i manicomi da noi non esistono più, tutti ci riempiamo la bocca della «dignità delle persone» che va preservata (ricordate il documentario Human forever?) a qualsiasi età e in ogni condizione. Eppure non è inutile o scontato, l’appello per una ventata di vita nelle strutture, «un po’ di giungla anche per me» come canta Paolo Conte. Nelle case, nei centri di cura di varia natura, al posto del filo spinato ci sono magari giardini bellissimi e spazi benessere, ma ogni tanto ci vorrebbero un Randle P. McMurphy, un Martini, un Grande Capo a scompigliare le carte dell’ordine costituito. E a creare legami, distribuirli con il mestolo più che con il contagocce, perché ciò che salva dalla tragedia è la commedia umana. A volte queste figure ci sono ma vengono considerate pericolose. Certo, non vengono punite con la lobotomia. Basta allontanarle, metterle in cattiva luce, trattarle come macchiette. A volte invece, mettono radici. Fanno comunità. Vogliono insieme la giungla e il pediluvio. Spostano macigni, o almeno ci provano. Come dice Nicholson nella favola del cuculo dopo l’ennesimo fallimento, but I tried.

lunedì, luglio 21, 2025

LIBRO: "Farmaci - Luci e ombre" di Silvio Garattini

Pochi e solo se necessari. Tutta la verità sulle sostanze cui affidiamo la nostra salute Ogni giorno usiamo farmaci per prevenire o curare malattie, ma la verità è che ne sappiamo molto poco: poco di come funzionano, di come vengono sperimentati e approvati, del loro reale costo per chi li produce e per il sistema sanitario. 
Ci siamo mai chiesti perché esistono più farmaci per lo stesso problema? 
E come funziona il loro mercato? 
Silvio Garattini risponde a queste e altre domande per guidarci in un mondo complesso e aiutarci a scelte più consapevoli. 
Se è innegabile che negli ultimi anni il settore farmaceutico ha fatto enormi progressi in terapie e riabilitazione, tuttavia ha anche lavorato per crescere e autoalimentarsi, producendo farmaci simili e promuovendo una ricerca che non sempre rispecchia le reali necessità dei pazienti.
In meno di 200 pagine questo volume indispensabile parte dalle basi, cioè da come si sviluppa un farmaco e come si giudica il suo valore, fino a toccare tutti i punti di un dibattito pubblico sulle terapie, dai dati sul consumo in Italia fino ai temi etici più complessi.
Il capitolo che per primo attira l’attenzione di chiunque è quello dedicato ai farmaci reputati inutili, che non apportano alcun vantaggio terapeutico e alcun beneficio.
Circa 3,7 milioni di italiane e italiani utilizzano più di una volta l’anno prodotti omeopatici: 164 milioni di euro, 300 milioni secondo altre stime, spesi di tasca propria in pillole che sono state sostanzialmente riconosciute come dei placebo e nulla più. Tollerabili ma inutili.
Ma Garattini ripone sullo scaffale dei prodotti privi di efficacia comprovata anche i fermenti lattici, la melatonina, la vitamina D, integratori vari; nello stesso capitolo ci sono anche tre dense paginette sulla complessa questione della valutazione degli effetti della cannabis terapeutica. 
Insomma, varrebbe la pena aprire un dibattito approfondito e informato su ciascun punto e nel complesso sul nostro rapporto con i farmaci.
Autore
Silvio Garattini nato nel 1928  è un medico. Nel 1961 compie il suo atto rivoluzionario: grazie all’eredità di un filantropo milanese fonda l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, che ancora oggi conduce ricerche biomediche senza brevettare le proprie scoperte, mettendo realmente la scienza al servizio della salute pubblica. 
Questo significa che al Mario Negri vengono condotte ricerche senza sottostare alla logica del profitto e senza legami con lo Stato, con la Chiesa, con la politica, con le religioni o con la finanza.

domenica, luglio 20, 2025

MOSTRA: "Il tempo degli intrecci incompleti" alle Tilane dal 17 al 26 Luglio 2025

Giovedì 17 Luglio, alle Tilane è stata inaugurata la mostra fotografica multimediale 
"Il tempo degli intrecci incompleti"
nata dai percorsi del progetto VIP – Village Including Project e TilaneForYouth.  
La mostra ospitata nel foyer di Tilane da giovedì 17 a sabato 26 luglio 2025.
All'inaugurazione è stato distribuita una raccolta di poesie che qui riportiamo:



















sabato, luglio 19, 2025

LIBRO: "L'arte in tavola" di Philippe Daverio

Philippe Daverio ci guida alla scoperta delle relazioni tra cibo e pittura, con un libro che non è altro che un gioco sul gusto fatto con le opere d’arte.

Il volume ripercorre il tema in un gioco di rimandi e di curiosità che scaturiscono a partire da opere d’arte, note e meno note, che raffigurano nature morte alimentari, scene di cucina e sale da pranzo scelti “allo scopo di stimolare la fantasia e il buonumore”. 
Attraverso tre sezioni - la spesa, la cucina e la tavola - l’autore guida l’occhio del lettore a scoprire i dettagli e racconta le storie che stanno dietro le immagini della pittura di tutti i tempi.
Clara Peeters, Natura morta con formaggi, carciofo e ciliegie, 1625 circa

Le mucche ci sono anche in Cina, in India sono sacre, eppure il formaggio esiste solo in Europa. Ancora una volta è colpa degli antichi Romani i quali lo chiamavano "caseus" per permettere agli anglosassoni d'oggi di chiamarlo "cheese" e ai tedeschi di chiamarlo "Käse" e agli spagnoli "queso".
Noi e i francesi lo chiamiamo in modo diverso perché ne prendiamo la parola dalla forma che assumeva nell'antichità per essere venduto, il famoso "formaticum" per cui dire oggi una forma di formaggio è un'esagerata ridondanza, ma siccome "repetita iuvant", il ripetere fa bene alla salute e alla mente, i francesi e gli italiani possono vantare la massima diversificazione di questo cibo fondamentale, anche se gli olandesi che lo chiamano "kaas" lo hanno dipinto più d'ogni altro popolo.