mercoledì, gennaio 15, 2025

Il pentimento di Zuck

 

Da Zafferano News  di Giovanni Maddalena del 11 Gennaio 2025

La svolta della comunicazione viene a qualche giorno dall’inaugurazione della nuova presidenza americana.

Mark Zuckerberg, in un video di 5 minuti, informa il mondo che cambierà la direzione culturale di Facebook, Instagram & co.

Via fact-checking e filtri, Mark Zuckerberg annuncia la svolta di Meta nell’era Trump

Con un tono e una faccia da pentito o da combattente vinto, spiega che collaborerà con la nuova presidenza americana in modo tale da garantire la massima libertà di espressione come vuole la Costituzione statunitense.

In un attimo, finisce l’era del fact checking, che Zuck ammette essere stato troppo pregiudiziale in senso politico fin dal 2016, epoca della prima presidenza Trump.

Come già accade su X, la menzogna verrà segnalata da chi vorrà con un commento al post (community notes).

Verranno anche rimossi i filtri che impedivano di far emergere i commenti politici e, in particolare, quelli che guidavano le discussioni su gender e immigrazione.

Il team della sicurezza, che si occuperà non più di controllare i fatti ma solo di combattere i contenuti illegali e violenti e di ridurre gli errori di segnalazione, si sposterà dalla California al Texas, per essere meno condizionato dall’ambiente politicamente corretto e per essere più sensibile alla libertà di espressione.

È una svolta impressionante, che ci rivela molti elementi delle dinamiche del potere effettivo. Innanzi tutto, si capisce il peso della vittoria elettorale, in particolare negli Stati Uniti.

Le elezioni hanno sempre delle conseguenze, come ha detto senza mezzi termini il fondatore di Facebook: si entra in un’era diversa.

La politica decide degli ambiti di azione almeno tanto quanto avviene il contrario.
È un’illusione pensare che basti cambiare il proprio comportamento per cambiare la vita politica. 
La politica decide spesso dei comportamenti attraverso le leggi.

Da qui anche la cruciale importanza di “fare politica”.

Ho molti amici statunitensi che hanno votato un terzo candidato o non hanno votato per evitare di schierarsi con gli imbarazzanti Harris e Trump.

È una scelta comprensibile ma sbagliata, che consegna solo ad altri il diritto di decidere e di incidere.

In questo caso, chi ha votato Trump può partecipare della sua ricostruzione/ restaurazione/ rivoluzione e chi ha votato Harris potrà fare un’opposizione vera.

Chi ha buttato il proprio voto e continua a non impegnarsi né in un senso né nell’altro, starà alla finestra della storia.

Zuckerberg, che alla finestra non vuol stare, ha già deciso cosa fare.

In secondo luogo, il video di Zuck impone una serie di domande:

  • il fondatore di Facebook ha mentito in questi 8 anni quando ha preso tutte le decisioni su fact-checking, filtri, ecc. predicando la necessità di contrastare il grave pericolo delle fake news o sta mentendo adesso per compiacere il nuovo capo-padrone?
  • E, seguendo lo stesso filo di questioni, e allargandolo: il pericolo delle fake news c’era o era un’invenzione politica per tenere lontano un concorrente?
  • E, adesso, esiste veramente il problema della “troppa censura” o è un mostro agitato per tenere a bada il prossimo concorrente?
  • Il politicamente corretto era una giusta esigenza o un mostro ideologico?
  • La polarizzazione è endogena al sistema dei social networks o è stata creata artificialmente?

Infine, più in profondità, dalla vicenda emerge la grande domanda morale che riguarda ciascuno: certamente, si possono e si devono cambiare le idee.

È un segno di intelligenza l’avere forti pre-comprensioni, e anche pre-giudizi, ma riuscire a cambiarli.

Il problema è capire qual è il criterio di cambiamento delle idee: si cambiano le idee perché si capisce che la realtà è diversa da ciò che pensavamo e che dunque la verità è un’altra o si cambiano perché non c’è nessuna verità e conta solo il vincere o il perdere politicamente?

Il video di Zuckerberg non risponde né alle domande specifiche né alla grande domanda morale.

Ciascun lettore può guardarlo e farsi un’idea della risposta del padrone di Facebook, Instagram e Whatsapp.

Soprattutto, ciascuno ci può riflettere seriamente in generale e per sé stesso e, magari, per una volta, liberamente.


martedì, gennaio 14, 2025

MOSTRE: "OLIVETTI – Design «umano»" a Milano

 

Da Corriere Cultura Milano  di Silvia Calvi del 12/01/2025

Le storie e le persone dietro gli oggetti da ufficio che sono entrati per sempre nel nostro immaginario

La mostra “Olivetti. Uomini, progetti e prodotti” presso ADI – Design Museum – Piazza Compasso d’Oro, 1 – dal 14 gennaio all’8 febbraio 2025

Per info: www.adidesignmuseum.org

È un viaggio alle radici di una delle più innovative e influenti aziende italiane del dopoguerra, la Olivetti di Ivrea (così visionaria da battere sul tempo perfino dinamiche realtà d’oltreoceano come la Texas Instruments) la mostra che inaugura martedì 14 gennaio alle all’ADI Design Museum.

Una rassegna «poco pop e di molta sostanza», anticipa il curatore Massimo Navone designer e fondatore dello Studio Navone Associati.

«Per capirlo basta scomporre il titolo: “Olivetti. Uomini progetti e prodotti”. Protagonista naturalmente è la Olivetti di Adriano ma anche quella di Carlo de Benedetti, realtà che ho conosciuto da vicino per aver lavorato dieci anni negli uffici Corporate Identity. Un’azienda profondamente meritocratica, con una visione internazionale e assolutamente fuori dagli schemi per l’Italia dell’epoca e perfino per quella di oggi».

E gli uomini del titolo? «Una delle caratteristiche dell’approccio di Olivetti nel processo progettuale è sempre stata la centralità dell’essere umano, dunque la mostra non poteva prescindere dai protagonisti di quella che è stata un’autentica fucina di creatività. Ecco allora gli uomini a partire dall’operaio (e futuro AD, oltre che firmatario di 20 brevetti internazionali) Natale Capellaro, gli ingegneri come Giorgio Perotto e Gastone Garziera e i designer come Ettore Sottsass e Albert Leclerc.

Uomini che hanno creato dispositivi diventati iconici, come la macchina da scrivere portatile Valentine, disegnata nel 1968 da Sottsass, il primo pc da tavolo P101 (nella foto), la calcolatrice Divisumma 18 e la Serie 45, pensata per l’ufficio. Un pioneristico progetto modulare composto da tavoli, scrivanie, sedie impilabili, cassettiere e da un assortimento di accessori che andavano dal portaombrelli ai supporti per il telefono».

La mostra all’ADI mette in risalto alcuni di questi oggetti raccontandone la storia offrendo ai visitatori diverse chiavi di lettura della «filosofia» Olivetti.

E lo fa con rigore filologico, tanto da aver scelto di rieditare il modulo espositivo semplicissimo (un parallelepipedo in cartone con base a trapezio) ideato da Hans von Klier per una storica mostra Olivetti che nel 1978 girò l’Europa.

Nello spazio «Restart» dell’allestimento, infine, le riedizioni di quattro progetti simbolo del design olivettiano: dall’agenda progettata da Enzo Mari e con le illustrazioni di Diego Perrone al posacenere di Giorgio Soavi (ma con la scritta più contemporanea che ricorda che fumare fa male); dalla lampada della serie Spazio di BBPR a una cassettiera della Serie 45.

«I visitatori ne saranno stupiti: il tratto comune che unisce questi progetti è la capacità di attraversare il tempo. Forse anche perché, dietro le quinte, tra designer e ingegneri c’erano stima e rispetto reciproco, era sempre un vero lavoro di squadra. Rieditare questi oggetti in occasione della mostra ci ha permesso di tenere vivi pensieri e qualità del secolo scorso.

Un amico mi ha detto: “dobbiamo liberarci da questo gusto”. Ma perché? Era un gusto meraviglioso. Riferito a qualità etiche e creative delle quali ci siamo scordati».


lunedì, gennaio 13, 2025

Il “rispetto” del “puntino”.

da Ottorino PAGANI riceviamo e volentieri pubblichiamo 

Il Presidente Mattarella, nel discorso di fine 2024, ha sostenuto la scelta della Treccani nell’indicare “rispetto” come parola dell’anno 2024 . 

Il motivo,  secondo l'Istituto dell'Enciclopedia italiana, è ricaduta su questo vocabolo "per la sua estrema attualità e rilevanza sociale nell'ambito della campagna di comunicazione #leparolevalgono, volta a promuovere un uso corretto e consapevole della lingua, sottolineando da una parte la necessità di un suo uso semanticamente e civilmente corretto, dall'altra la sua funzione indicatrice di un valore da condividere nella società civile: per rispetto delle persone, delle istituzioni, delle diverse culture, dell'ambiente e di tutti gli esseri viventi". 

Il Dizionario dell'italiano Treccani definisce il rispetto come un "sentimento e atteggiamento di stima, attenzione, riguardo verso una persona, un'istituzione, una cultura, che si può esprimere con azioni o parole”. "Questa parola - spiegano Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, condirettori del Vocabolario Treccani - dovrebbe essere posta al centro di ogni progetto pedagogico, fin dalla prima infanzia, e poi diffondersi nelle relazioni tra le persone, in famiglia e nel lavoro, nel rapporto con le istituzioni civili e religiose, con la politica e con le opinioni altrui, nelle relazioni internazionali.

Il termine rispetto, continuazione del latino "respectus", va oggi rivalutato e usato in tutte le sue sfumature, proprio perché la mancanza di rispetto è alla base della violenza esercitata quotidianamente nei confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del mondo animale”.

L’atteggiamento di “cura” e “riguardo” della natura si ricollega all’invito finale del post “Il puntino” pubblicato l’11 gennaio 2025 su questo blog: 

La Terra è l’unico mondo che conosciamo in grado di ospitare la vita. Proteggiamolo!”. 

E questo atteggiamento deve guidarci anche nella cura del nostro territorio,  ad esempio: 

la realizzazione del Parco del Seveso è una manifestazione di rispetto per il fiume, e per questo dobbiamo impegnarci a pulire le acque, a conservare gli spazi aperti limitrofi al corso dell’acqua, oltre che mantenere la fascia di rispetto fluviale nelle aree urbanizzate (150 metri di inedificabilità assoluta da ciascuna sponda o piede degli argini).


domenica, gennaio 12, 2025

Il cocktail nella storia

 

Finiti i brindisi delle feste natalizie, ma sempre desiderosi di aperitivi e apericene vari, mi sembra interessante ripercorrere la storia delle molte bevande alcooliche che il genere umano ha da sempre inventato ed ampliato…

CIN! Alla nostra salute!

L’alcol: le origini

Conosciuto già nel periodo neolitico (circa 8000 a.C.), l’alcol tremila anni dopo, con l’affermarsi delle prime civiltà, divenne un prodotto essenziale per diverse popolazioni e culture che ne facevano uso durante i momenti rilevanti della loro esistenza.

L’alcol nelle sue varie declinazioni veniva regolarmente utilizzato per i sacrifici offerti agli Dei, nei riti religiosi, per la benedizione che precedeva le battaglie, prima dell’esecuzione dei prigionieri, per celebrare vittorie, nei riti sacrificali, in occasione di nascite e matrimoni, partenze o decessi, per infondere coraggio, per curare malattie e come rimedio contro la fatica.

Intorno al 4000 a.C. l’alcol ebbe un ruolo fondamentale nell’Antico Egitto, paese in cui non vigeva alcuna legge sul consumo di alcolici e luogo in cui erano già presenti taverne e birrerie, vere e proprie fabbriche che producevano e vendevano diversi liquori e distillati.

All’epoca si producevano circa diciassette tipi di birra e circa venticinque tipi di vino, proposti sul mercato e consumati come un vero e proprio alimento, venivano impiegati a scopo terapeutico, utilizzati in occasione di riti religiosi o riposti nelle tombe come dono ai defunti e agli Dei.

Il cocktail nella storia

Recipienti di terracotta rinvenuti durante studi archeologici sulla vite condotti sulle rive del fiume Tigri dal professor Patrick McGovern dell’Università della Pennsylvania dimostrano come il cocktail sia nato addirittura ben 5000 anni fa.

Recentemente lo storico del bar David Wondrich ha trovato la parola “cocktail” riportata nel quotidiano The Farmer’s Cabinet del 28 aprile 1803, nel quale un anonimo raccontava in un articolo: “alle 11 bevvi un bicchiere di cocktail. Eccellente per la testa.”

Una prima spiegazione del termine “cocktail” è riscontrabile in un articolo di Harry Croswell, pubblicato sul quotidiano The Balance and Columbian Repository il 13 maggio del 1806.

Nel testo il giornalista rispondeva alla richiesta di chiarificazione del termine inoltrata da un lettore, dopo che questi aveva trovato tale parola in un articolo dello stesso Croswell pubblicato nel medesimo quotidiano la settimana precedente.

Nell’articolo l’autore raccontava di un repubblicano che aveva perso le elezioni per essersi giocata la reputazione acquistando alcuni drink e spendendo ben 24 dollari in cocktail.

In risposta all’attento lettore, il giornalista spiegava così il significato della parola cocktail: “Bevanda stimolante, composta da diverse sostanze alcoliche, zucchero, acqua e amaro, volgarmente chiamata Bittered Sling”.

Le Leggende

La più famosa leggenda, tramandata ormai da numerosi scrittori del settore, relativa all’etimologia della parola cocktail ha origine ai tempi della Guerra d’Indipendenza Americana (1775 – 1783), e vede come protagonista Betsy Flanagan, vedova di un rivoluzionario e proprietaria di una taverna a Four Corners nei dintorni di New York, la quale preparò un drink decorato con una piuma di gallo. Il piacevolissimo sapore della bevanda mise di buon umore gli avventori del locale, in quel periodo prevalentemente ufficiali francesi, i quali, in segno di ringraziamento, finirono per brindare alla salute della signora levando i bicchieri e gridando “Vive le Cock-tail!”, ossia “Viva la coda del gallo!”.

Sull’origine della parola cocktail troviamo un’altra leggenda ambientata a New Orleans, patria del jazz. Essa racconta di un farmacista di nome Antoine Amadee Peychaud che soleva somministrare ai suoi pazienti una mistura forte e tonificante a base di bitter e brandy, in seguito chiamata Peychaud Bitter. La miscela veniva servita in una coppa grande, simile ad un portauovo, chiamato in francese “coquetier”. La storpiatura della pronuncia da parte dei pazienti, poco pratici della lingua romanza, fece sì che “coquetier” divenisse “cock-tiy” e in seguito “cocktail”.

Di leggende sul cocktail e sulla sua origine se ne contano oggigiorno una trentina; storie provenienti da diversi paesi, tutte interessanti e valide da raccontare per intrattenere e incuriosire il cliente allietando la sua serata.

Bar-tender

Il come e il quando è iniziato il bartending, rimane tuttora un mistero, ma di certo questa pratica risale a migliaia di anni fa.

Già ai tempi dei babilonesi erano presenti le Taverne e nel codice di Hammurabi esistevano leggi scritte per regolamentare i comportamenti e i divieti per i tavernieri.

Si ritiene che i primi veri bartender risalgano ai tempi dei romani quando la cultura delle taverne si era largamente diffusa e si bevevano svariate tipologie di vini e bevande sotto forma di mix realizzati dall’oste stesso mescolando vino con erbe aromatiche e miele.

Prima del quindicesimo secolo la maggior parte dei bartender era costituita principalmente da Innkeeper, ovvero proprietari di locande che lavoravano dietro al bancone dei loro locali e producevano essi stessi prodotti a base alcolica come liquori e birra da servire alla propria clientela.

Il bartending, parola comparsa intorno al 1830, era considerato un mestiere poco reputabile e solo dal 19° secolo la percezione relativa a questa professione cominciò a cambiare.

L’uso di servire i cocktail iniziò a svilupparsi nel diciannovesimo secolo negli Stati Uniti, paese in cui, all’inizio del secolo, cominciarono a nascere i primi Saloon e dove, allo stesso tempo, si fece strada la moda di bere i Mixed Drinks così chiamati in America. Questo fenomeno portò il conseguente incremento del numero dei bartender la cui professione cominciò a diventare e ad essere riconosciuta come un vero e proprio lavoro.

Questo periodo fu chiamato la Golden Age dei saloon e dei bar d’hotel, proprio grazie al sempre più massiccio consumo di spiriti e liquori, spesso sapientemente miscelati in cocktail dal gusto intrigante e insolito.

Jerry Thomas detto Il Professore, è considerato il padre del bartending moderno grazie alle sue esperienze, ai suoi numerosi viaggi, ai locali gestiti, ai numerosi cocktail da lui creati e certamente anche per la sua abilità professionale dietro al bancone. Ma ciò che lo rese più famoso in tutta la comunità del bartending e degli amanti del buon bere fu soprattutto il suo libro del 1862 The Bar Tenders guide (or How to Mix Drinks), considerato il primo libro del suo genere: un completo compendio sui cocktail, sui prodotti alcolici e non, impiegati nella mixologia, e sulle tecniche di preparazione dei liquori e dei cocktail.

All’incirca nello stesso periodo arrivarono altri grandi personaggi come Harry Johnson, Leo Engel, William Schmidt, George Kappeler, F.C. Lawlor e William Boothby, bartender che contribuirono a loro volta allo sviluppo del bartending sia nell’invenzione di nuovi cocktail sia nel miglioramento delle preparazioni degli stessi.

Dopo la metà del diciannovesimo secolo in quasi tutte le grandi città europee venivano preparati e serviti i famosi Mixed drinks americani come il Mint Julep, il Crusta e il Cobbler.

Nel 1882 il Chicago Tribune fece una sorta di sondaggio chiedendo ai barman qual fosse il cocktail più alla moda e il risultato fu l’Old Fashioned, mentre verso la fine del diciannovesimo secolo dominò il Martini cocktail.

All’inizio del nuovo secolo le cose cambiarono, i cocktail cominciarono a evolversi, si tentavano nuove sperimentazioni e nuovi accostamenti tra diversi liquori e spiriti. Questa nuova spinta di innovazione fu però smorzata dalla Prima Guerra Mondiale e dal Proibizionismo che portò conseguenze disastrose a livello sociale ed economico colpendo in modo rilevante il mondo degli alcolici e della loro distribuzione e tutto il sistema economico collegato.

Molti bar vennero chiusi e di conseguenza i bartender rimasero senza lavoro costretti ad emigrare verso Cuba, Canada ed Europa. Tra questi ritroviamo il famoso bartender Harry Craddock che fece le valige all’indomani della proclamazione dell’inizio del Proibizionismo e andò a lavorare al Savoy di Londra per prendere il posto di un’altra grande barmaid che era Ada Coleman (quasi al termine della sua carriera).

La criminalità organizzata dilagante scatenò una guerra spietata per acquisire il controllo sulle vendite dell’alcol prodotto illegalmente; inoltre, per bere bevande alcoliche le persone si cimentavano in distillazioni di fortuna, di nascosto dalle autorità, utilizzando alambicchi artigianali. Spesso ne risultava un prodotto di pessima qualità, dal sapore a volte sgradevole, tanto che erano frequenti intossicazioni a volte con esito letale.

I trafficanti (bootlegger) vendevano alcol di scarsa qualità a prezzi molto alti mentre la corruzione dilagava tra gli agenti federali, i giudici e i poliziotti. Inoltre, dato da non trascurare, furono molti i milioni di dollari persi dallo stato americano per il mancato incasso delle tasse sull’alcol.

L’unico fattore positivo del Proibizionismo fu la nascita di nuovi drink grazie a nuove modalità di preparazione e all’inserimento nelle ricette di succhi di frutta, panna e molti altri ingredienti.

I barman americani che fuggivano dal Proibizionismo portarono la loro cultura del bar nella capitale cubana, talvolta perfino trasportando fisicamente il bancone e gli arredi del proprio bar.

Per tutto il periodo del Proibizionismo Cuba visse un’epoca d’oro per il bere miscelato: i Cantinero impararono molti cocktail americani e i metodi di lavoro dei bartender statunitensi creando a loro volta molte nuove miscelazioni che diedero origine a svariati nuovi cocktail.

I bar più rinomati si trovavano all’interno di alcuni hotel come il Nacional, il Sevilla Baltimore e l’Inglaterra, e in locali come lo Sloppy Joe’s, il Floridita, nel quale già operava il grande Constantin Ribalaigua, e la Bodeguita del Medio meta di molti americani famosi e facoltosi, attori, industriali e politici. Anche noti personaggi della malavita americana si recavano a Cuba per riunirsi e divertirsi durante il weekend bevendo alcolici senza temere e sottostare alle restrizioni introdotte negli USA, per poi tornare nel loro paese, come avvenne durante the Havana Conference, il famoso meeting tra i mafiosi capeggiati da Lucky Luciano.

In Europa il bere miscelato e i cocktail vivevano la loro golden age nei bar di Berlino, al Ritz di Parigi, all’Harry’ s Bar di Venezia oppure al Savoy di Londra.

In Italia il Movimento Futurista aveva preso piede anche nel mondo dei drink che diventavano sempre più fantasiosi, spesso serviti con l’accompagnamento di pezzetti di formaggio, di frutta o di cioccolata.

In questo periodo inoltre furono creati i cocktail più celebri e conosciuti oggigiorno, come

il Negroni al bar Casoni di Firenze,

il Bloody Mary all’Harry’s bar di Venezia,

l’ Hanky Panky al Savoy di Londra e

il Mimosa al White Lady,

creati in Europa per mano di barman anche loro famosi come Harry McElhone, Frank Meier, Ferdinand Petiot, W.T. Tarling, Torelli, Jean Lupiou, Petro Grandi, Fosco Scarselli e tanti altri.

Da sottolineare anche come tantissimi American bar nacquero nel vecchio continente in quest’epoca proprio per soddisfare i numerosi turisti americani i quali erano desiderosi di poter consumare prodotti alcolici a loro preclusi dal divieto della vendita di alcol e liquori nel loro Paese.

Al termine del Proibizionismo il Rum conquista un posto rilevante nel mercato per il semplice motivo che era economico da acquistare.

Don Beachcomber fu il primo ad aprire un bar in stile tropicale con cucina polinesiana, adattata al gusto americano dove si vendevano principalmente cocktail a base di rum e succhi di frutta tropicali con l’aggiunta di spezie, serviti nei bicchieri e in altri contenitori più bizzarri e fantasiosi.

Subito dopo seguì le sue orme un altro barman, Trader Vic. Questo tipo di locale si consolidò così da far nascere più tardi il movimento chiamato Tiki che durante la Seconda Guerra Mondiale divenne una vera e propria moda, non limitata solamente alle isole Hawaii e ad altre isole tropicali, ma esteso a tutte le parti d’America.

Negli anni ‘40 la vodka venne introdotta nella preparazione di numerosi cocktail come il Moscow Mule, il Bloody Mary e il Martini cocktail. Quest’ultimo viene citato per la prima volta con questa variante nel libro di Lucius Beebe, lo Stork Club del 1946, in cui la ricetta venne modificata con l’uso della vodka al posto del gin.

Questa variante divenne uno slogan con il famoso agente segreto James Bond, che nell’ordinare i suoi Martini cocktail ordinava la variante con vodka Shaken not Stirred!

Durante gli anni ‘50 e ‘60 andava di moda bere il Martini cocktail molto secco, ed alla fine degli anni Sessanta i Tiki bar e i cocktail cominciarono a tramontare.

Gli anni ‘70 e ‘80 vengono definiti gli Anni Bui o Dark Age nella cultura del bere, forse anche per il fatto che il presidente Jimmy Carter era contrario al consumo dell’alcol e contro le campagne pubblicitarie per promuoverlo ai consumatori.

Verso la fine degli anni ‘90 assistiamo alla riscoperta del cocktail e del mondo bar con la conseguente ripresa del consumo dei cocktail classici che vengono nuovamente richiesti e consumati.

A Milano, per esempio, esplode nuovamente la moda dell’Aperitivo, vero e proprio rito della quotidianità sociale, con la riproposizione di cocktail come l’Americano, il Negroni e l’Aperol Spritz accompagnati con stuzzicherie varie, sempre più elaborate.

I Tiki drinks cominciano ad essere nuovamente rivalutati, la moda del Flair diventa più popolare grazie anche al film Cocktails di qualche anno prima con Tom Cruise nelle vesti di barman acrobatico.

Il nuovo Millennio portò grandi cambiamenti nel mondo del bar. A New York cominciarono a riapparire gli Speakeasy, bar ‘segreti’ che furono famosi durante il periodo del Proibizionismo, e ritornarono in voga alcuni vintage drink come l’Old Fashioned, il Martinez cocktail, il Sazerac, il Ramos Fizz, il Mint Julep, i Cobblers e il French 75.

Negli anni a seguire arrivano i cocktail Molecolari realizzati con nuove tecniche, utilizzando ghiaccio sintetico, gelatine, spuma ed altri prodotti da laboratorio per esaltare profumi, aromi e gusto delle preparazioni. L’affinamento delle tecniche ha portato sia all’invecchiamento in botte di cocktail già miscelati che venivano poi serviti spillati come si trattasse di birra sia ad una fase in cui i drink sono stati proposti già imbottigliati, pronti per il consumo.

Oggi parliamo di veri e propri Laboratori ‘Lab’ nelle cantine e negli office dei bar dove si elaborano nuove tecniche di preparazione degli ingredienti, come la macerazione, l’essicazione e la distillazione.

Si lavora anche con la fermentazione degli ingredienti, che provengono da tutte le parti del mondo con svariate specie di piante, fiori, spezie ed altri ingredienti di cui non si era mai sentito parlare prima d’ora.

Sebbene però i cocktail creati ogni giorno in tutto il mondo siano numerosissimi, i più richiesti e prediletti dalla clientela restano sempre e comunque gli intramontabili Classici.

Inoltre, in questo millennio anche la figura del barman è cambiata, si è evoluta per rispondere alle nuove richieste di una clientela sempre più attenta ed esigente. Divenuto ormai un professionista a 360 gradi si occupa non solo della preparazione dei cocktail ma anche di altre numerose attività. I ruoli che riveste sono infatti molteplici: events manager, ambasciatore, consulente, docente, formatore, esperto del web, produttore, viaggiatore, alchimista, giornalista, scrittore e via dicendo, andando quindi a creare molteplici nuove specializzazioni strettamente legate alla sua figura di barman e al mondo del bar.

Ciò che però contraddistingue la poliedricità del bartender è la sua professionalità, il savoir faire, l’attenzione per il cliente, l’eleganza, la serietà e l’ospitalità!

Molto spesso il successo di un locale si deve proprio alle capacità istrioniche dei suoi bartender che sanno creare esperienze esclusive e memorabili per la loro clientela miscelando in modo sapiente ingredienti come spiriti, liquori e distillati, succhi, frutti, guarniture e, non meno importante, la capacità di accogliere le persone e farle sentire al centro della scena.

sabato, gennaio 11, 2025

Un puntino

 

Quella che vedete è un’immagine del nostro pianeta scattata nel 1990 dalla sonda Voyager 1, a una distanza di 6 miliardi di chilometri.

Questa celebre fotografia, conosciuta come "Pale Blue Dot" (Pallido Puntino Blu), ispirò il fisico e divulgatore Carl Sagan a scrivere queste parole:

"Osserva di nuovo quel puntino. Questo è qui. Questa è casa nostra. Questo siamo noi. Tutti quelli che ami, tutti quelli che conosci, tutti quelli di cui hai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la loro vita su quel puntino.

La somma delle nostre gioie e sofferenze, migliaia di religioni, ideologie, dottrine economiche, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e contadino, ogni coppia innamorata, ogni madre e padre, ogni bambino brillante, inventore ed esploratore, ogni insegnante di etica, ogni politico corrotto, ogni "superstar", ogni "leader supremo", ogni santo e peccatore della storia della nostra specie hanno vissuto qui, su una piccola particella di polvere sospesa in un raggio di sole.

La Terra è una minuscola scena in un vasto teatro cosmico. Riflettiamo sui fiumi di sangue versati da generali ed imperatori per assicurarsi, in gloria e trionfo, il controllo temporaneo di una frazione di granello di sabbia. Riflettiamo sulle crudeltà infinite inflitte dagli abitanti di un angolo di quel puntino agli abitanti, quasi indistinguibili, di un altro angolo. Quanto spesso fraintendiamo, quanto ardentemente desideriamo ucciderci, quanto intensi sono i nostri odi.

Le nostre convinzioni, la nostra importanza immaginaria, l’illusione di un ruolo privilegiato nell’universo, sono ridicolmente meschine di fronte a questo puntino di luce pallida. La nostra Terra è solo una minuscola macchia solitaria nell’enorme oscurità cosmica che ci avvolge. In questo vasto vuoto, non c’è alcuna indicazione che qualcuno verrà a salvarci da noi stessi.”

La Terra è l’unico mondo che conosciamo in grado di ospitare la vita. 

Proteggiamolo.

 


giovedì, gennaio 09, 2025

LIBRO: Gualberta Alaide Beccari - Itinerario umano e culturale di una giornalista padovana 1842-1906

 

di Carmen Rita Pantano

Ci sono storie di donne che spesso si perdono nel tempo, schiacciate dagli eventi e dalla società che cambia inesorabilmente.

Questa è la vita di Gualberta Alaide Beccari, giornalista, scrittrice, femminista ante litteram, che all’interno della cultura veneta si è perduta nella memoria comune, appartenendo a un passato del quale si sono smarrite le tracce. Per il suo impegno nella lotta per l’affermazione della dignità e dei diritti delle donne si può considerare all’avanguardia rispetto al periodo storico in cui è vissuta.

Il libro non vuole essere un inno alla nascita del femminismo in Italia quanto piuttosto un omaggio alla sensibilità e all’intelligenza di Gualberta che volle intraprendere un cammino nuovo nei confronti di una società che stentava a riconoscere il ruolo della donna nel consorzio umano.

Il testo si sofferma sugli aspetti della sua complessa personalità che, attraverso sofferenze fisiche e psicologiche, intraprese un percorso esistenziale “difficile”, vissuto con estrema lucidità e con grande forza d’animo.

Sullo sfondo del nostro Risorgimento si staglia la figura di Gualberta che, riaffiorata dalle stanze della memoria, rivive quale concreta espressione dell’universo femminile proiettato, da sempre, nel processo evolutivo della storia.

Gualberta Alaide è un nome francamente ridicolo, eppure Gualberta Alaide Beccari, a dispetto del nome, è stata una ragazza a modo suo rivoluzionaria nell'Italia dell'800.

Oggi però è praticamente dimenticata dalle stesse italiane.

Fondò con coraggio a 26 anni una rivista intitolata LA DONNA, che per i tempi era eccezionale: era infatti un quindicinale non solo diretto da una donna, ma in cui tutte le collaboratrici erano donne.

Pubblicavano scritti di argomento vario, che spaziavano un po’ in tutti gli ambiti e generi: dal lavoro femminile alla famiglia, dalla pedagogia alle lettere di viaggio.

Riprendeva e sviluppava per esempio gli scritti dell'inglese Josephine Butler che lottava contro la prostituzione minorile e femminile. Una rivista che portava avanti una visione laica e completa della vita.

Alaide Beccari era il simbolo di quanto una donna possa essere uguale all’uomo in quello che fa, pensa e dice quando dotata di preparazione culturale e forza di volontà.

Certo, una rivista notevole per il 1868. E quando nella rivista si accenna alle ragazze degli anni ‘60, è del 1860 che si parla!

“Volevamo tutte liberarci dai ruoli che tanti definivano ‘naturali’: maritarsi, procreare, badare alla famiglia, al massimo dedicarsi ad attività caritatevoli. Un nuovo tipo di donna stava emergendo, che lavorava per raggiungere l’autonomia."

Impensabile allora che una donna si potesse occupare di questioni serie. E lei come giornalista fece il possibile per cambiare questo pregiudizio.

Morì a Bologna, malata e sola nel 1906 ed è sepolta nella Certosa. La sua rivista le sopravvisse ma successe qualcosa di poco bello. Entrarono dei giornalisti e capi redattori uomini, che lentamente virarono la rivista su temi di moda e mondanità. La Beccari si stava rivoltando nella tomba. Non durò a lungo, il periodico chiuse i battenti nel 1933.

La memoria di Gualberta è fioca ma ha resistito, se l'emancipazione femminile -sempre osteggiata- esiste in Italia a lei deve molto.

Gualberta Alaide Beccari: Indice, Prefazione, Introduzione

AUTRICE:

Carmen Rita Pantano, siciliana d’origine, laureata in Filosofia, vive e lavora a Padova.

Da sempre interessata alle problematiche femminili, ha pubblicato articoli di critica letteraria sul quotidiano «La Sicilia» e per alcuni anni ha collaborato con la rivista culturale «Leggere Donna». Con il racconto Ritorno alle radici ha vinto il secondo premio del Concorso letterario “Città di Noto”, prima edizione 1990/1991. Nel 2008 è stata finalista al Concorso “Marguerite Yourcenar”, sezione narrativa, con il racconto breve Incontro con la vita.

Pubblicazioni: Storia di un gentiluomo d’altri tempi (Siracusa, 2007), Parole allo specchio (Ferrara, 2007), Adelia. Una donna nell’arte e nella vita (Siracusa, 2011), Il Grand Tour al femminile. Emma Mahul. Viaggiatrice oubliée in Sicilia (Siracusa, 2016).

mercoledì, gennaio 08, 2025

L’ effetto Zeigarnik

 

Avete mai sentito parlare di Bliuma Zeigárnik? Scommetto di no. La storia non è mai stata generosa con le donne di talento, figuriamoci nell’ambiente della psicoanalisi.

Un giorno, osservando un cameriere nel ristorante di un grosso albergo, Bliuma ebbe un’illuminazione, che la portò ad approfondire il fenomeno.

Quel cameriere era in grado di trattenere nella sua memoria una quantità infinita di ordinazioni (le famose comande) da passare in cucina, ma le dimenticava subito dopo averle portate in tavola. Cioè, dopo aver esaurito il compito.

Nel 1927 pubblicò uno studio su questo fenomeno, riportando i risultati di alcuni test in cui affidò a diversi soggetti una serie di 18-22 esercizi da completare (enigmi, giochi, problemi aritmetici). I soggetti alla fine dell'esperimento si ricordavano due volte di più gli esercizi non conclusi rispetto a quelli completati con successo.

Questo fenomeno da lì in poi venne chiamato – appunto- Effetto Zeigárnik e sembra dirci che per affrontare la fine di qualcosa, siamo in qualche modo attrezzati.

Che si tratti di una storia d’amore, la morte di una persona cara, l’abbandono di un luogo nel mondo al quale eravamo particolarmente legati.

Però a patto che avvenga la conclusione. Cioè, che dentro di noi, con maggior o minor fatica, riusciamo a porre la parola fine, prima o dopo i titoli di coda.

I suoi scritti sono di  aiuto per fare la pace con tutti i rituali dell’elaborazione del lutto e del dolore che spesso risultano incomprensibili, o alle volte atrocemente banali.

Poter dire addio, per quanto doloroso, vuol dire cominciare lentamente a guarire.

Quello che il nostro cervello, o il nostro cuore, non riesce a dimenticare, sono le situazioni inconcluse, quelle rimaste a metà, quel moto interrotto dei sentimenti che non accenna a trovare un punto di arrivo, o di riavvio. Le parole che non abbiamo detto, le decisioni non prese, gli abbracci non dati, gli addii ancora in sala di attesa.

L'effetto Zeigarnik descrive come la mente umana ha più facilità a continuare un'azione già cominciata e portarla a termine, piuttosto che dover affrontare un compito partendo da zero. Infatti, quando si incomincia un'azione si crea una motivazione per portarla a termine che rimane insoddisfatta se l'attività viene interrotta. Sotto l'effetto di questa motivazione un compito interrotto rimane nella memoria meglio e più profondamente di un'attività completata.

L'effetto Zeigarnik è il fenomeno psicologico alla base del funzionamento in narrativa del cliffhanger.

Il cliffhanger è un espediente narrativo usato in letteratura, nel cinema, nelle serie televisive o nelle opere video-ludiche, in cui la narrazione si conclude con una interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena o di un altro momento culminante caratterizzato da una forte suspense.

In genere un cliffhanger conclude un episodio (per esempio di una serie televisiva, o di una storia a fumetti o romanzo a puntate), con l'intento di indurre nel lettore o nello spettatore una forte curiosità circa gli sviluppi successivi (e quindi il desiderio di acquistare il volume seguente o di guardare la puntata successiva).

Proprio sfruttando il meccanismo dell'effetto Zeigarnik, nelle telenovele gli episodi si interrompono con classici cliffhanger, lasciando incompiuta la trama dell'episodio al fine di spronare lo spettatore a seguire l'episodio successivo.


martedì, gennaio 07, 2025

Pubblicità innovative: le migliori campagne pubblicitarie 2024

Ogni anno, il mondo della comunicazione ci “regala” pubblicità innovative che non si limitano a promuovere un brand, prodotti o servizi, ma raccontano storie capaci di farci sorridere, riflettere e talvolta persino cambiare prospettiva.

Le migliori campagne pubblicitarie del 2024 hanno saputo sfruttare l’umorismo, l’innovazione tecnologica e la sensibilità sociale, dimostrando che la creatività è ancora il cuore pulsante del marketing.

Pubblicità innovative: potere delle 7 migliori campagne 2024

In questo articolo vengono esplorate alcune delle campagne che meritano di essere ricordate.

Indice

  1. Magnum: “Stick to the Original”
  2. Uniqlo: l’abbraccio che riscalda 
  3. MV Line: quando l’imperfezione diventa geniale
  4. Unieuro: “Stop Scrolling”
  5. La campagna sociale di Ichnusa
  6. La bellezza dell’inclusione con Ikea
  7. Pubblicità innovative

Magnum: “Stick to the Original”

Con Stick to the Original, Magnum prende una posizione ironica e decisa contro le imitazioni del suo celebre gelato. La campagna ruota attorno a una scena domestica: una donna scopre che il fidanzato ha acquistato una confezione “dupe” del gelato originale e, con un crescendo comico, realizza che ogni dettaglio della sua vita è altrettanto falso.

Perché funziona:

  • L’umorismo è immediato e coinvolgente;
  • Il messaggio si rivolge a un pubblico giovane, abituato a confrontarsi con la cultura del “fake”;
  • Magnum ribadisce il valore dell’autenticità, differenziandosi dai competitor.

Questa campagna è un esempio di come un messaggio semplice, ma ben confezionato, possa rimanere impresso. È sicuramente una delle migliori campagne pubblicitarie dell’anno.

Uniqlo: l’abbraccio che riscalda 

Quando il marketing incontra la tecnologia, nascono campagne uniche come   Hug the Unlock di Uniqlo. Per promuovere la gamma di abbigliamento termico, l’agenzia The Pill ha installato a Parigi un distributore automatico molto particolare. La macchina si sblocca solo quando due persone si abbracciano, dimostrando il calore che riescono a trasmettere.

Perché funziona:

  • L’esperienza coinvolge fisicamente le persone, rendendo il messaggio memorabile;
  • L’idea trasmette perfettamente il valore del prodotto: proteggere e riscaldare;
  • Il posizionamento in una città romantica come Parigi amplifica l’efficacia emotiva.

Uniqlo dimostra come le campagne pubblicitarie innovative possano andare oltre il digitale, creando esperienze reali che rafforzano il legame con il pubblico.

MV Line: quando l’imperfezione diventa geniale

MV Line, azienda specializzata in sistemi infiltranti contro gli insetti, ha scelto il palco di Sanremo per presentare uno spot fuori dagli schemi. “Non siamo pratici di spot TV“, con un audio “a singhiozzo”, è l’adv che gioca sull’idea di non essere in grado di realizzare un annuncio perfetto, sottolineando che la vera expertise dell’azienda è altrove.

Perché funziona:

  • L’autenticità dello spot cattura l’attenzione in un contesto ipercompetitivo;
  • L’umorismo smonta le aspettative, generando curiosità;
  •  Il messaggio si lega perfettamente alla promessa di specializzazione dell’azienda.

La campagna rappresenta l’importanza di saper fare autocritica con stile, un elemento che la rende una delle migliori campagne pubblicitarie 2024.

Unieuro: “Stop Scrolling”

Come non citare Unieuro Stop scrolling quando si parla di comunicazione! L’azienda, infatti, utilizza un tono di voce ironico e confidenziale per parlare al suo target attraverso i social media e lancia una campagna che sfrutta il fastidio visivo per attirare l’attenzione.

La creatività dell’adv è volutamente incompleta, costringendo l’utente a fermarsi per cercare di capire il contenuto. A completare il tutto, un copy accattivante che sposa perfettamente il tono di voce del brand.

Perché funziona:

  • È impossibile ignorarla: sfrutta il principio psicologico del “gap di curiosità”;
  • Il tono di voce è giovane e ironico, in linea con il target;
  • La semplicità dell’idea la rende immediata e virale.

Un esempio di come le campagne pubblicitarie possano trasformare un difetto in un punto di forza, conquistando un posto tra i trend dell’anno.

La campagna sociale di Ichnusa

Ichnusa si è distinta nel 2024 con la campagna di reverse marketing audace e provocatoria 

Se deve finire così”. Il messaggio, un chiaro riferimento alla sostenibilità e alla lotta contro l’inquinamento ambientale, invita le persone a non acquistare i prodotti Ichnusa se non sono disposte a riciclare correttamente.

Perché funziona:

  • La provocazione è forte e stimola la riflessione;
  • Il marchio si associa a valori di sostenibilità, rafforzando la propria identità;
  • L’impatto emotivo è amplificato dal legame con una tematica globale.

Il marketing, in questi casi, risulta essere un forte strumento di responsabilità sociale e Ichnusa se ne prende carico, abbracciando e divulgando un valore fondamentale al giorno d’oggi.

La bellezza dell’inclusione con Ikea

In occasione della Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Bifobia e la Transfobia, IKEA ha presentato una campagna semplice ma potentissima. Con pochi scatti e frasi immediate, il brand celebra la casa come luogo di amore e accoglienza per ogni tipo di coppia.

Perché funziona:

  • Il messaggio è inclusivo e universale;
  • La scelta di una comunicazione minimalista amplifica l’impatto emotivo;
  • IKEA consolida il proprio ruolo come promotore di valori progressisti.

La campagna è il perfetto equilibrio tra sensibilità e autenticità, dimostrando che anche la semplicità può diventare memorabile.

Le migliori campagne pubblicitarie del 2024 ci insegnano che non esiste una formula unica per il successo. Dall’ironia tagliente all’impegno sociale di IKEA, ogni brand ha trovato un modo unico per raccontare la propria storia.

La creatività, unita a una comprensione profonda del pubblico, rimane la chiave per creare messaggi che non solo vendono, ma ispirano.



lunedì, gennaio 06, 2025

TERRITORIO: Vigevano e la Lomellina – 6 Gennaio 2025

Nella giornata del 6 Gennaio vengono proposte numerose visite guidate alla scoperta di una città e un territorio da riscoprire

VIGEVANO PROMOTIONS | VISITE GUIDATE A VIGEVANO E LOMELLINA

La città di Vigevano si trova sulla riva destra del Ticino a circa 35 chilometri sia da Milano che da Pavia, della cui provincia fa parte. 

Fondamentale per la conoscenza della città è la visita al centro storico che prende avvio dalla celebratissima Piazza Ducale, considerata fra le più belle piazze d'Italia.

La Piazza si presenta come atrio del prospiciente Castello, ed è considerata la prima piazza rinascimentale italiana. La sua costruzione fu voluta da Ludovico Maria Sforza, detto il Moro, probabilmente su progetto di Donato Bramante. La facciata concava della Cattedrale, che ricorda una quinta teatrale, per effetto ottico amplifica le dimensioni della piazza.

La Torre del Bramante è il simbolo della città di Vigevano. Dalla merlatura panoramica a 360 gradi si abbraccia con lo sguardo la città. È possibile scrutare angoli e particolari altrimenti difficili da cogliere.

Itinerari che si snodano tra Piazza Ducale e il Castello Visconteo-Sforzesco compongono un insieme architettonico riconducibile al concetto di Città Ideale di Leonardo Da Vinci 

 

domenica, gennaio 05, 2025

MOSTRE: Cristina Roccati - La donna che osò studiare fisica – a Rovigo. Ingresso gratuito.

 

Su suggerimento di Elisabetta Varisco Rigolin volentieri pubblichiamo il seguente articolo

Scopri la sua straordinaria storia nella mostra "Cristina Roccati. La donna che osò studiare fisica" a Palazzo Roncale, Rovigo, dal 6 dicembre 2024 al 21 aprile 2025.

Palazzo Roncale – Mostra Crisitina Roccati

Cristina Roccati rappresenta un esempio straordinario di emancipazione culturale e intellettuale. La sua vicenda personale e accademica è un viaggio affascinante attraverso le lotte e le conquiste delle donne del Settecento.

La mostra è un tributo alla sua eredità, un invito a riflettere sulle barriere che ha infranto e un’opportunità per esplorare l’impatto profondo che la sua figura ha lasciato nella storia della cultura e della scienza italiana.

Cristina Roccati, nota anche con lo pseudonimo di Aganice Aretusiana (Rovigo, 24 ottobre 1732 – Rovigo, 16 marzo 1797), è stata una fisica e poetessa italiana; il suo talento la portò, nel 1751, a diventare la terza donna laureata al mondo all’Università di Bologna, aprendo la strada a generazioni di scienziate.

Oggi, il suo nome continua a brillare tra le stelle: l'ESA (European Space Agency) ha deciso di intitolarle uno dei telescopi del progetto PLATO, che ha l’obiettivo di cercare pianeti simili alla Terra.

Cristina Roccati nacque da Giovan Battista e Antonia Campo, che appartenevano a una famiglia benestante di Rovigo.

Roccati studiò lettere classiche con Pietro Bertaglia di Arquà, poi rettore del seminario di Rovigo, e all'età di 15 anni ricevette i primi riconoscimenti dall'Accademia dei Concordi per le sue poesie.

Nel 1747 i genitori le concessero il permesso di studiare Filosofia naturale all'Università di Bologna sotto la tutela del Bertaglia e in quello stesso anno vi venne ammessa come prima studentessa non bolognese.

Studiò letteratura, logica, metafisica, moralità, meteorologia e astronomia, ma concentrò gran parte dei suoi sforzi sulla fisica e sulle scienze naturali.

A Bologna fu premiata per le sue poesie e i suoi sonetti, così come era successo a Rovigo.

Divenne membro dell'Accademia dei Concordi di Rovigo (1749), dell'Accademia degli Apatisti di Firenze e dell'Accademia letteraria di Pistoia nel 1750, dell'Accademia nell'Arcadia di Roma, con lo pseudonimo di Aganice Aretusiana, dell'Accademia degli Ardenti di Bologna e dei Ricovrati a Padova nel 1753, e nel 1754, in quella degli Agiati di Rovereto.

Il 5 maggio 1751, in un periodo in cui le opportunità di istruzione superiore venivano spesso negate alle donne, Cristina Roccati, considerata un prodigio, si laureò in Filosofia diventando, secondo Wertheim, "la terza donna in assoluto a ottenere un titolo accademico".

Proseguì gli studi presso l'Università di Padova concentrandosi sulla fisica newtoniana, sul greco e sull'ebraico, pur continuando a coltivare i suoi interessi letterari e comporre nuovi versi.

A partire dal 1751, fu insegnante di Fisica presso l'Accademia dei Concordi di Rovigo (dove insegnò almeno fino al 1777).

Nel 1752, la sua famiglia cadde in rovina finanziaria costringendola a interrompere gli studi a Padova.

All'Accademia dei Concordi di Rovigo, di cui fu eletta presidente nel 1754, Roccati tenne corsi serali di fisica newtoniana per altri membri. 

Cristina Roccati morì a Rovigo il 16 marzo 1797.

Dalla lettura delle sue lezioni, di cui solo 51 sono state ritrovate, emerge una passione per la divulgazione e la ricerca.

Affiora inoltre un quadro piuttosto definito della sua propensione: rifiuta l’aristotelismo, si esprime in termini decisamente copernicani e galileiani.

I cardini fondamentali della sua preparazione e delle sue convinzioni si radicano nell’opera newtoniana e nella produzione scientifica del tempo. Ben trattate risultano le nozioni naturalistiche, in particolare quelle chimiche e geodetiche.

Roccati Cristina — Scienza a due voci 


sabato, gennaio 04, 2025

Persi dentro Netflix

 

Articolo tratto da Internazionale nr. 1592 del 6 Dicembre 2024

I cataloghi infiniti. Lo strapotere degli algoritmi. La qualità sacrificata alla quantità. Lo streaming ha ridisegnato le abitudini degli spettatori, cambiando la nostra idea di cos’è un prodotto culturale.

Se vi avventurate nelle profondità meno esplorate di Netflix – superate i “Drammi tv da guardare tutti d’un fiato” e i “Thriller d’azione anni ottanta”, girate a sinistra a “Perché hai guardato il film Lego Batman” e andate oltre la categoria “È Halloween!” – alla fine raggiungerete il nucleo più nascosto della piattaforma, dove giacciono strati dimenticati di contenuti fossilizzati dalla pressione dei livelli superiori. Qui sotto, se cercate a fondo, troverete Richie Rich.

Forse lo ricorderete come il protagonista di una vecchia serie a fumetti. Netflix l’ha immaginato come un “ragazzino che si è fatto da solo”: ha scoperto una nuova fonte di energia derivata da tutte le verdure che non ha mai mangiato ed è diventato così la persona più ricca del mondo. Vive in una villa con un parco divertimenti e una cameriera robot; suo padre è un balordo scansafatiche; la sua migliore amica, interpretata dalla futura superstar di Netflix Jenna Ortega, è una scroccona; un rapper di nome Bulldozah abita nella casa accanto, con un figlio che è amico di Richie. In confronto alla versione cupa e solitaria del personaggio interpretata da Macaulay Culkin nel 1994, qui la vita di Richie è bella, anche se non priva dei problemi che derivano dal fatto di essere un bilionario preadolescente.

Nel quarto episodio della serie, Richie non riesce a scrivere un tema sul Mago di Oz: sia il romanzo sia il film lo fanno addormentare, non sa come fare. Il figlio di Bulldozah gli suggerisce di ricreare il film con i suoi amici e amiche, e Richie gli dà ascolto. Ma appena comincia a lavorarci, le cose si complicano. Il personaggio del Leone ha riscritto la propria parte diventando un superganzo con tanto di moto. Anche Dorothy vuole essere alla moda: pensa che dovrebbe venire da Parigi, non dal Kansas, e si fa chiamare Véronique. La cameriera robot fa notare che l’Uomo di latta non può arrugginire, perché la latta non si corrode, e decide così di diventare l’Uomo di tungsteno al carbonio. Alla fine, il film viene girato in 3D, con dinosauri che viaggiano nel tempo, un asteroide e robot spaziali malvagi, una scelta che offende la cameriera di Richie. “Per una volta”, dice, “sarebbe bello vedere un modello positivo per i giovani robot”.

Un nuovo protagonista

Senza volerlo, quest’episodio solleva un interrogativo che aleggia sulla nostra epoca: cosa succede all’intrattenimento quando nel settore arriva un nuovo protagonista, armato di una quantità di denaro praticamente infinita?

Cosa succede, in altre parole, quando compare Netflix?

La serie Richie Rich faceva parte della prima ondata di prodotti originali Netflix, lanciata alla fine di quel breve periodo in cui il pubblico generico riusciva ancora a seguire tutto quello che l’azienda produceva.

Ha debuttato sulla piattaforma all’inizio del 2015. Netflix era reduce dall’enorme successo di House of cards, che l’azienda raccontava così: visto che gli abbonati amavano Kevin Spacey e il regista David Fincher e che avevano apprezzato l’omonima serie britannica, distribuita nel 1990, Netflix ha comprato un prodotto che metteva insieme tutti e tre. Aveva speso molto, ma poteva permetterselo perché sapeva cosa volevano guardare ancor prima di loro.

In origine la serie doveva andare in onda su YouTube ed era stata girata con un investimento proporzionato alla piattaforma. Ma come racconta Jeff Hodsden, uno dei creatori dello show, un giorno i dirigenti di Netflix si sono presentati sul set e un mese dopo si è sparsa la voce che avrebbero comprato la serie. Nelle puntate si vedono ancora gli stacchi dove sarebbero dovuti andare i messaggi promozionali.

Nel 2014, l’anno in cui ha comprato Richie Rich, Netflix ha accumulato debiti per quattrocento milioni di dollari, che si sono aggiunti ai cinquecento milioni dell’anno precedente. L’obiettivo era espandere la programmazione originale. Così, da semplice distributore di dvd, l’azienda è diventata la principale piattaforma di contenuti del mondo: prendendo in prestito montagne di denaro.

Nel 2015 ha raccolto sul mercato azionario 1,5 miliardi di dollari, con l’obiettivo di triplicare l’offerta di contenuti dell’anno precedente.

Nel 2016 un altro miliardo.

Nel 2017 la cifra è salita a tre miliardi, con l’obiettivo di offrire ottanta film nell’anno seguente (in quel momento stava già lanciando in media un prodotto a settimana).

Nei due anni successivi l’azienda ha raccolto altri otto miliardi. 

Netflix stava creando una sorta di volano, in cui i finanziamenti raccolti sui mercati aiutavano a creare nuove produzioni, queste portavano nuovi abbonati e gli abbonati portavano più denaro.

Ma per alimentare il circuito dei contenuti e degli abbonati, l’azienda aveva bisogno di continuare a vendere azioni, al punto che nel 2019 aveva circa quindici miliardi di dollari di debito a lungo termine.

Così si è guadagnata il soprannome di Debtflix (dall’inglese _debt, _debito) nella stampa finanziaria, che continuava a chiedersi se quel livello d’indebitamento era sostenibile. Applicando a Netflix le logiche del settore dei mezzi di comunicazione, la situazione appariva incerta, ma l’azienda agiva secondo le regole dell’industria tecnologica:

spendere mucchi di denaro per attirare clienti, cambiare le loro abitudini, e schiacciare la concorrenza fino a trasformare un intero settore.

Ed è esattamente quello che ha fatto Netflix.

Il catalogo della piattaforma forse è stato costruito con il debito invece che con il capitale di rischio, ma la sua enormità ne rivela la provenienza quasi da un altro universo, qualcosa che solo la Silicon Valley avrebbe potuto immaginare.

Le sue dimensioni cambiano di continuo, mentre divora e sputa contenuti: secondo gli ultimi dati resi noti dall’azienda, i titoli sono più di 16mila, migliaia dei quali originali, creati o acquisiti dalla piattaforma, destinati a rimanerci in teoria per sempre, anche se lentamente sepolti da nuovi film, serie e documentari.

Se si ipotizza, con una stima prudente, che la durata media di un titolo in catalogo sia di due ore – un titolo può essere qualsiasi cosa: da un’intera stagione di una serie a un film di un’ora – 

ci vorrebbero tre anni e mezzo di visione ininterrotta per guardare l’intero archivio di Netflix.

Si tratta di una quantità di contenuti superiore a quella che una persona può (o dovrebbe) guardare in una vita intera. Quando una decina di anni fa sono state gettate le fondamenta di questo incredibile catalogo, non avremmo mai potuto immaginarne l’ampiezza, l’abbondanza e il senso di disorientamento che si prova nei suoi labirintici corridoi.

Debiti su debiti

Una decina d’anni fa Reid Hoffman, fondatore di LinkedIn, ha tenuto un seminario a Stanford intitolato “La crescita fulminea permessa dalla tecnologia”.

In quell’occasione ha esposto la sua teoria sulla crescita delle grandi aziende nel ventunesimo secolo: avrebbero rapidamente ridotto le spese e aumentato i profitti, usando i software e il vantaggio di essere i precursori per dominare interi settori.

Reed Hastings, fondatore di Netflix e all’epoca anche amministratore delegato, è intervenuto allo stesso seminario nel novembre 2015. Netflix era sopravvissuta alla bolla tecnologica degli anni duemila e Hastings cominciava a percepire l’arrivo di un’altra crisi.

“Nel 2000 raccogliere fondi era facilissimo, come se bastasse scuotere una lattina per tirarne fuori cinquanta milioni di dollari”, ha detto in quell’occasione. “Era incredibile. Non ho mai visto nulla di simile. Fino all’anno scorso”.

Le operazioni con capitale di rischio sono tornate ai livelli della bolla dei primi anni duemila alla metà dello scorso decennio.

Nel 2015 sono state concluse operazioni di questo tipo per 130 miliardi di dollari, quasi quanto i due anni precedenti messi insieme.

Nel 2021 la cifra aveva raggiunto un totale di 621 miliardi di dollari.

Tutt’a un tratto per chi cercava una crescita fulminea c’era un sacco di denaro a disposizione.

Un fattore che può spiegare l’enorme afflusso di capitali ai fondi di rischio è la politica dei tassi d’interesse a zero (indicata con la sigla Zirp, zero interest rate policy).

All’indomani della crisi finanziaria globale, la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) ha ridotto i tassi di interesse quasi a zero e li ha mantenuti bassi per più di un decennio. Di solito le banche centrali lo fanno per stimolare il credito e rendere più agevole prendere in prestito denaro.

Ma la cosa spinge anche gli investitori a prendere rischi maggiori:

quando il tasso della Fed è intorno al 4,9 per cento, come oggi, è possibile ottenere rendimenti annui del 4,9 per cento quasi a rischio zero comprando titoli di stato statunitensi. Un buon affare.

Ma quando il tasso è pari o vicino allo zero, i rendimenti sicuri sono minimi.

Così il capitale si sposta lungo la cosiddetta “curva del rischio”, verso investimenti che possono ancora offrire guadagni significativi: immobili, azioni e, all’estremo, il capitale di rischio (venture capital), che accetta di perdere un numero enorme di scommesse in cambio di pochi successi estremamente redditizi. Una stima prudente del tasso di fallimento delle startup è del 75 per cento.

Queste attività hanno in pratica rimodellato il nostro mondo nell’ultimo decennio.

Anzi, per dirla tutta, sono state progettate proprio con questo obiettivo.

In Da zero a uno, la bibbia dei fondatori di startup, Peter Thiel scrive che la “legge di potenza” sembra applicarsi anche agli investimenti in capitale di rischio: “Il segreto più grande nel venture capital è che il miglior investimento di un fondo di successo è uguale o supera tutto il resto del fondo messo insieme”. La conclusione è che qualsiasi fondo degno di questo nome deve seguire due regole, in qualche modo simili a quelle di Fight club.

“Primo: investire solo in società che hanno il potenziale di creare rendimenti pari al valore dell’intero fondo.

Secondo: dato che la regola numero uno è così severa, non ci possono essere altre regole”.

Il libro di Thiel è una guida alla ricerca di imprese in “monopolio creativo”: quelle che costruiscono e dominano un mercato, arricchendo sé stesse e i loro fondatori, i quali, nella visione di Thiel, potranno poi investire in ulteriori innovazioni. È questo il senso della relazione tra venture capital e tecnologia: trasformare continuamente il mondo.

Le aziende sono state incoraggiate a crescere a ogni costo e a preoccuparsi degli utili in un secondo momento, una strategia non inedita, ma che a un certo punto è stata spinta a nuovi estremi.

Uber ha potuto bruciare miliardi di dollari in contanti per circa quindici anni, piegando il mercato, abbattendo le normative e i monopoli locali e alterando il comportamento dei consumatori, per poi quotarsi in borsa con una valutazione di 82,4 miliardi di dollari, mentre perdeva ottocento milioni di dollari a trimestre.

WeWork ha potuto perdere miliardi di dollari a trimestre, comprando e ristrutturando immobili commerciali in trentanove paesi, il tutto nel tentativo di ridisegnare l’ambiente d’ufficio a immagine e somiglianza delle startup sostenute dal capitale di rischio – flessibile, aperto, pronto a crescere, con piccole comodità per tutti – senza mai realizzare profitti e infine dichiarando bancarotta l’anno scorso.

Queste spese sfrenate sono state evidenti ovunque e hanno dato vita a quello che l’editorialista del New York Times Kevin Roose ha definito il millennial lifestyle subsidy, una sorta di contributo allo stile di vita dei millennial, cioè autisti a richiesta, consegne a domicilio, servizi di pulizia, auto a noleggio, case in affitto: tutti servizi offerti in perdita grazie a investimenti di rischio in attesa di decollare.

È così che i millennial sono arrivati a vivere come una massa di piccoli Raskolnikov: apparentemente in miseria, ma con un’abbondanza di servitori a disposizione.

Forse bisognerebbe pensare agli anni del picco della produzione televisiva come a una versione culturale dello stesso fenomeno, un altro prodotto secondario della battaglia industriale che infuriava negli spazi ancora vergini resi disponibili dalla tecnologia informatica.

Netflix è atipica anche se paragonata ad altre società di streaming, “una zebra tra cavalli”, come la definisce la studiosa di comunicazione Amanda D. Lotz nel suo libro Netflix and streaming video.

Apple TV+ e Amazon Prime Video sono “complementi aziendali” di grandi società tecnologiche;

Paramount+, Peacock e Disney+ sono estensioni di classici studi cinematografici e attingono al loro considerevole patrimonio di proprietà intellettuale;

Max è un Frankenstein nato dalla fusione tra l’Hbo, l’unica antenata di Netflix ancora in vita, e una decina di canali di nicchia via cavo.

Netflix è l’espressione più pura del modello di streaming, e la forza trainante che ha convinto anche altre aziende a spingersi oltre.

Il suo vasto catalogo ha cambiato l’industria della televisione, offrendo prodotti migliori e mostrando agli altri un modello da seguire, ma anche trasformando la natura stessa della tv.

Un tempo la televisione aveva l’unico obiettivo di divertire il maggior numero di persone contemporaneamente, il che era anche ciò che la rendeva così stupida: “La televisione è ciò che è”, scriveva David Foster Wallace nel 1993, “per il semplice motivo che la gente tende a somigliarsi terribilmente proprio nei suoi interessi volgari, morbosi e stupidi, e a essere estremamente diversa per quanto riguarda gli interessi raffinati, estetici e nobili”.

Il modello Svod (Subscription video on demand, abbonamenti video su richiesta) ha liberato la tv dalla legge dei numeri e dalla gabbia del tempo e ci ha fatto credere che i nostri raffinati e nobili interessi potessero trovarsi sullo schermo.

Lotz sostiene che, sganciandosi dall’obiettivo principale della tv tradizionale (cioè, vendere un pubblico agli inserzionisti), il modello dello streaming “cambia completamente i calcoli della programmazione”. Questo perché “invece di lavorare con un solo pubblico, lo strumento on demand permette agli Svod di creare diverse audience”.

Lotz mi ha fatto notare un’esperienza apparentemente banale, ma in realtà significativa e curiosa, diventata comune in questa epoca: vai in un Airbnb e accendi la tv, già aperta sull’account di qualcun altro, e vedi una marea di contenuti di cui non conoscevi neanche l’esistenza. Stesso televisore, stessa app, stesso abbonamento: eppure lo schermo si apre su un mondo alieno.

Incalcolabile abbondanza

A dicembre del 2023 Netflix ha fornito una mappa senza precedenti del suo catalogo, pubblicando per la prima volta un’analisi completa dei dati degli spettatori.

Si tratta di un foglio di calcolo di meno di un megabyte che classifica 18.214 contenuti della gigantesca libreria di Netflix in base al numero di ore di visione nei primi sei mesi del 2023, arrotondate al centinaio di migliaia.

Questo significa che la classifica non è nemmeno esaustiva, perché esclude i titoli con meno di cinquantamila ore di visione.

Al primo posto c’è il thriller The night agent, su un agente dell’Fbi, con più di 812 milioni di ore di visione.

In fondo c’é _ Il signor Kim, il mio maestro_, una commedia sudcoreana del 2003 con centomila ore, anche se questo posizionamento è il risultato del modo in cui Excel ordina il catalogo.

Le ultime quattromila voci hanno tutte centomila ore di visione, cioè il valore minimo della classifica, e sono disposte in ordine alfabetico. Grazie alla notevole offerta internazionale di Netflix, la fascia inferiore del club delle centomila ore è piena di titoli in altri alfabeti: arabo, giapponese, coreano.

A parte i primi posti, dominati dai Netflix Original e dai film per bambini, non è chiaro perché certi titoli finiscano in determinate posizioni.

Perché Memento si trova nel ghetto delle 300mila ore, mentre Coach Carter ha ventuno milioni di ore di visione? Forse Memento era disponibile solo in Slovacchia, forse è stato posizionato male nell’app. O forse non ha mai innescato quel meccanismo algoritmico-culturale che trasforma i titoli del catalogo storico in successi contemporanei. La classifica non lo spiega. Scorrendola, però, si capisce come le dimensioni dell’archivio hanno accentuato l’importanza del caso nelle nostre abitudini di consumatori.

Uno sguardo all’archivio può impressionarci per la sua vastità, ma in realtà è come sbirciare dal buco della serratura.

Quando apro Netflix sul mio apparecchio, mi presenta subito un carosello di settantacinque nuove uscite; poi i dieci migliori programmi televisivi di oggi negli Stati Uniti; appena sotto altri settantacinque suggerimenti perché ho guardato il poliziesco Rebel ridge; ancora più giù una selezione algoritmica di trentatré prodotti “Scelti per te”; poi i “Drammi televisivi da guardare tutti d’un fiato”, ancora settantacinque. Segue “Altri titoli da guardare”, una combinazione di programmi guardati da mio figlio e da me. Poi ancora: “Le ultime dieci cose che non abbiamo finito di guardare”; infine una lista di ulteriori settantacinque titoli suggeriti perché ho guardato il thriller La fratellanza. E in più almeno trenta caroselli di circa settantacinque titoli ciascuno. È un sacco di roba, ma è solo una piccola fetta del catalogo.

Alla fine, ciò per cui paghiamo non è un singolo film o serie tv, o tre o dieci o cinquanta, ma piuttosto questo senso di incalcolabile abbondanza.

Il che significa, a sua volta, che un solo titolo non può avere la stessa rilevanza che poteva avere nell’era della televisione in chiaro.

In questo contesto, anche un grande successo può sembrare una specie di fallimento.

Prendiamo Triple frontier, il thriller d’azione del 2019 con Ben Affleck e Oscar Isaac: è stato uno dei film di maggior successo della piattaforma in quell’anno, ma, come sottolinea Lotz nel suo libro, questo non significa che abbia particolare valore per l’azienda. Un budget di 115 milioni di dollari per un film è difficile da giustificare per Netflix a prescindere dal volume dell’audience, perché in fondo fornisce solo due ore di contenuti a una base di abbonati che paga soprattutto per un’offerta apparentemente infinita.

Il dubbio di Lotz trova conferma nelle parole di Ted Sarandos, il responsabile dei contenuti della piattaforma, che durante una riunione, a quanto pare, citando proprio quel titolo, ha chiesto un miglior bilanciamento tra budget e pubblico. Questo succedeva a metà del 2019, quando la stampa finanziaria cominciava a farsi domande sulla sostenibilità del modello di Netflix.

Matt Stoller, un saggista molto critico verso i monopoli, ha citato questo episodio in un post del suo blog dedicato alle difficoltà di Hollywood.

La sua teoria è che Hollywood sia diventata così grande da non riuscire più a capire cosa vuole davvero il pubblico.

Stoller cita il successo di Ritorno al futuro, un film del 1985 che è diventato un cult e ha guadagnato centinaia di milioni di dollari. Come ricorda il saggista, tutto era successo lentamente: il film aveva debuttato a luglio in circa 1.400 sale, ed era arrivato a 1.550 entro la fine di agosto, rimanendo in almeno mille cinema fino al periodo natalizio (oggi un film hollywoodiano ad alto budget di solito debutta in circa quattromila sale e sparisce in poche settimane). 

Ritorno al futuro, scrive Stoller, “arrivò in un mercato dove c’era un’interazione costante tra le creazioni artistiche e il pubblico (e gli intermediari) che ne determinava il successo e la validità. Oggi invece, secondo Stoller, il pubblico è soggetto a una sorta di alimentazione forzata di contenuti, come se gli fosse offerto il programma di quattromila sale alla volta.

La zombificazione della cultura è stata resa possibile in parte dai mezzi di comunicazione digitali, ormai simili a creature artificiali

La situazione è particolarmente critica nell’ambito dello streaming, dove il tasso di abbandono (il numero di persone che annullano un abbonamento) è ciò che incide davvero sui profitti. Almeno per Netflix.

Per un’azienda come la Apple, in cui l’attività di streaming è quasi un aspetto marginale, i titoli prodotti rimangono nascosti nell’app e nessuno ne parla più, a prescindere da quanto sono costati e dal valore dei talenti coinvolti.

In alcuni casi, le piattaforme hanno perfino deciso di non pubblicare film già pronti per poterne registrare le perdite nelle dichiarazioni fiscali. 

Questi sono gli incentivi del mercato dello streaming spinti al paradosso: l’intrattenimento di massa è totalmente scollegato dai segnali che arrivano dal mercato, paradossalmente a opera di entità che conoscono le nostre abitudini di consumo come non era mai successo in passato.

Questo non significa che le piattaforme non abbiano successo e che le persone non guardino la tv in streaming.

Nel 2023 Netflix ha accumulato 183 miliardi di ore di visione. Ma può spiegare l’ascesa della cosiddetta mid tv (televisione mediocre): spettacoli costosi, abbastanza brillanti e con cast di qualità, che però riescono a essere al massimo “carini”, per citare il critico televisivo del New York Times James Poniewozik.

È innegabile che nel lungo viaggio della tv qualità da una serie come The Wire a una come The Bear, si è insinuata una certa stanchezza: commedie con poche battute, drammi senza intensità, una decisa tendenza a scrivere trame nostalgiche e incentrate sui traumi dei protagonisti e un sacco di riprese fatte in Canada.

La prima generazione di titoli di alto livello è stata creata da veterani della tv tradizionale in cerca di libertà espressiva, persone che conoscevano i rudimenti del mestiere, cosa tiene lo spettatore incollato allo schermo durante la pubblicità: ritmo, struttura, dialoghi credibili.

Ma da circa dieci anni non è più così, e alla fine ci si trova davanti allo stesso problema di Richie Rich: quando anneghi nei soldi, è facile dire sì a tutto.

Alla vecchia maniera

Forse l’effetto più disorientante di questa situazione è lo scollamento tra quello che guardiamo e quello che pensiamo di guardare.

È un tema costante della critica televisiva da Mad men in poi, ma è difficile negare che da allora le cose siano decisamente peggiorate.

Davanti alle cifre di Netflix ci si rende conto che la tv di qualità non è per forza il risultato del modello di streaming, ma piuttosto il felice prodotto collaterale di un’industria in transizione, che forse oggi somiglia in qualche modo a una piccola sottocultura.

Prendiamo per esempio I think you should leave, lo spettacolo comico diventato fonte inesauribile di meme da condividere sui social media. È difficile pensare a un’altra serie le cui battute siano diventate così rapidamente di uso comune online; eppure, l’ultima stagione, uscita nella prima metà del 2023, non è nemmeno tra i primi tremila titoli di Netflix: occupa il 3.181° posto. Precisiamo: la serie è uscita a maggio, quindi i dati riflettono solo il primo mese di visione; gli episodi sono molto brevi, circa quindici minuti, e ce ne sono solo sei a stagione; quindi, il criterio delle “ore viste” la penalizza sicuramente. Tuttavia, non è nemmeno tra i primi cinquecento titoli nel rapporto sugli ascolti della seconda metà del 2023, che usa criteri di misurazione leggermente diversi.

Rumore bianco di Noah Baumbach, con Adam Driver e Greta Gerwig, una delle uscite più pubblicizzate di due inverni fa, è stato il 547° titolo più visto nella classifica dell’inizio del 2023, superato, tra gli altri, da White chicks, un film del 2004 dei fratelli Wayans. Rumore bianco è stato un fallimento se paragonato a Fubar, una serie con Arnold Schwarzenegger di cui non avevo mai sentito parlare, e alla prima stagione di uscita, nel 2021 è, a quanto pare, tra i maggiori successi di Netflix, con entrambe le stagioni nella top 10 della piattaforma. Neanche di questa serie avevo mai sentito parlare né conosco qualcuno che ne sappia qualcosa. Forse è un problema mio. Ma forse è anche vostro.

Fenomeno globale

Abbonati a Netflix per aree del pianeta, 2021-2023, milioni (spglobal.com)

Ricordate Hannah Gadsby, la comica australiana autrice di Nanette, il monologo del 2018 onnipresente nei discorsi dell’era del MeToo? Gadsby ha prodotto un altro show nel 2023, Something special, di cui non sapevo nulla prima di studiare le classifiche di Netflix.

È nelle ultime posizioni, superato da lavori di comici mai amati dalle élite (come Andrew Santino e Leanne Morgan) e, in particolare, da una figura che suscita soprattutto ostilità: Shane Gillis, il cui Beautiful dogs è stato però uno degli spettacoli di stand-up comedy più visti dell’anno.

Ovviamente il compito dei mezzi d’informazione non è solo raccontare al pubblico cos’è più in voga, e Nanette è stato sicuramente molto più visto di Something special, in parte anche grazie a quanto se n’è parlato sui mezzi d’informazione.

Ma il fatto è che per anni nessuno di noi ha avuto la minima idea di cosa stesse succedendo in quel mondo: ci siamo affidati ai suggerimenti di amici, social media, giornali, riviste e siti web, tutti accecati allo stesso modo.

Netflix ha continuato a produrre i suoi rapporti, e io ho continuato a osservare con stupore le prime posizioni. The night agentOuter banksOne pieceLa mia predilettaWho is Erin Carter?The gentlemen, sono tutti nella top 5 di Netflix secondo i tre rapporti diffusi finora.

Non conosco nessuno che li abbia guardati e non credo di aver mai letto nulla al riguardo prima di cominciare a scrivere quest’articolo. Sembrano reliquie di un mondo parallelo in cui certe novità non sono mai arrivate, a dimostrazione di quanto sia commercialmente saggio fare le cose alla vecchia maniera. E fanno pensare ai grandi discorsi che circondano ogni episodio dei programmi televisivi più alla moda, usati per cercare di capire lo zeitgeist,  lo  spirito del tempo. E se alla fine il geist del nostro zeit consistesse semplicemente nel guardare tutta di fila una serie basata su un romanzo di Harlan Coben (chi?) e intitolata Un inganno di troppo? È stato il titolo più visto su Netflix nella prima metà di quest’anno.

Uber e zombie

Alcuni economisti hanno criticato la politica dei tassi d’interesse a zero perché facilita la nascita delle cosiddette “imprese zombie”: aziende che sopravvivono solo grazie alla disponibilità di capitali a basso costo, che si trascinano rifinanziando il debito, senza mai fallire. Una specie di creature artificiali.

Proprio a questo mi riferisco quando penso a come il mondo della tecnologia si è impossessato della cultura.

Negli ultimi anni queste strategie commerciali, e il fiume di denaro usato per realizzarle, hanno dato vita a una sorta di zombificazione della cultura, cancellando davanti ai nostri occhi un mondo che sembrava vivo e reale.

Le lingue della piattaforma

Le lingue dei contenuti visti su Netflix da gennaio a giugno del 2023, % del totale (netflix)

Questo zombificazione è stata resa possibile in parte dai mezzi di comunicazione digitali, aziende tenute a galla dall’esuberanza degli investitori e dalla disponibilità di denaro a basso costo, cosa che è diventata evidente solo a posteriori.

Quando l’anno scorso Vice ha dichiarato bancarotta, il Financial Times l’ha definita un “fenomeno Zirp” e un “inceneritore di denaro”, che aveva raccolto centinaia di milioni di dollari da investire in una crescita mai arrivata.

Con il senno di poi, è difficile non chiedersi se questa situazione abbia creato un branco di zombie, che hanno cominciato a seguirsi a vicenda lungo uno strano percorso lastricato di tanti Nanette, titoli più interessanti da analizzare per come coinvolgono lo spettatore che da guardare.

I creatori di questi spettacoli sapevano a malapena chi fosse il loro pubblico – e in effetti l’accesso ai dati degli spettatori è stata una delle richieste avanzate durante lo sciopero degli sceneggiatori dello scorso anno – ma potevano accedere alle critiche scritte da qualche giovane appena laureato.

Con ogni probabilità i programmi hanno cominciato a riflettere questi input e si sono creati strani circuiti di feedback. Possiamo solo fare ipotesi su come sia successo. Quello che possiamo dire con certezza è che l’abisso tra discorso d’élite e discorso popolare che si è spalancato in questi anni è stato favorito dall’invasione del mondo tecnologico nella cultura pop.

Ora che il rigore fiscale si fa sentire, Netflix ha messo fine all’era dell’espansione.

Ci sono stati licenziamenti. Il nuovo responsabile del settore cinematografico, Dan Lin, ha cancellato i progetti più costosi che non avrebbero trovato un pubblico sufficiente.

E, cosa forse più importante, nel 2022 Netflix ha introdotto una fascia “con annunci pubblicitari”, coinvolgendo nuovamente proprio quei protagonisti da cui qualche anno prima aveva liberato la televisione.

Questo non significa certo la fine della tv intelligente e creativa. 

Baby reindeer, per esempio, la serie più interessante, brillante e coraggiosa realizzata quest’anno da Netflix, è stata anche uno dei suoi maggiori successi. Ed è stata prodotta nel Regno Unito, a migliaia di chilometri da Hollywood, che si sta riprendendo solo ora dallo sciopero degli sceneggiatori, con una sostanziale riduzione della produzione.

Il produttore e scrittore James Schamus ha lamentato quella che definisce la “uberificazione” di Hollywood, alimentata dalle piattaforme di streaming: Netflix e le sue concorrenti avrebbero degradato il talento creativo, passando dal sistema che prevedeva la condivisione dei profitti a quello in cui gli sceneggiatori lavorano per una retribuzione fissa su commissione.

Il paragone con Uber è particolarmente azzeccato, perché l’azienda di San Francisco – indiscusso campione dell’era Zirp – ha contribuito a creare un mondo chiaramente migliore sotto diversi aspetti, ma peggiore, forse in modo meno percettibile, per altri: meno caratteristico, meno interessante e a volte forse anche meno utile.

Secondo gli ultimi dati, a New York ci sono più di centomila veicoli di Uber o simili e le strade di Manhattan non sono mai state così trafficate.

I tempi di risposta delle ambulanze peggiorano di mese in mese.

Un recente articolo del New York Times raccontava una corsa in taxi dal terminal di Port Authority al Museo d’arte moderna: un percorso di appena undici isolati durato più di mezz’ora.

L’articolo citava uno studio secondo cui più della metà delle auto in circolazione sono a noleggio: i classici taxi gialli sono stati sostituiti da un’anonima flotta di berline e suv, prenotabili comodamente con un’app, che servono le richieste del mercato così bene da bloccare le strade della città.  

Forse è proprio in questa direzione che sta andando l’intrattenimento: sempre nuovi prodotti disponibili. Come non era mai successo in passato. Più di quanto si possa sognare. E per accedere alle novità basta premere un tasto, come avete sempre sperato che fosse.

Se poi tutto questo sia in grado di portarvi dove volete, è un’altra faccenda.

La buona notizia è che se vi annoiate, potete sempre guardare il cellulare...