martedì, ottobre 14, 2025

Marwan Barghouti - l’uomo che nessuno osa liberare: chi è e perché non viene rilasciato?

 

Marwan Barghouti, il 66enne politico palestinese è in carcere in Israele dal 2002 quando, nel corso della seconda Intifada, fu arrestato con l'accusa di essere il mandante di diversi attentati che hanno provocato la morte di 5 persone. 

Barghouti, palestinese residente in Cisgiordania, non riconobbe l'autorità della corte israeliana ma si disse estraneo alle violenze citate. 

Fu condannato a 5 ergastoli. 

Esponente di spicco di Fatah è stato più volte indicato come favorito in caso di elezioni in Palestina. Hamas ha chiesto la sua liberazione insieme a quella degli altri detenuti ma Israele si è opposto.

Ventitré anni di prigione non bastano a spegnere una voce.
Marwan Barghouti, politico, prigioniero e “professore in catene”, è temuto da Netanyahu e da Hamas per lo stesso motivo: parla al popolo come se fosse già libero.
C’è un paradosso che la storia ripete con inquietante regolarità: gli uomini più pericolosi non sono quelli che sparano, ma quelli che spiegano.

Marwan Barghouti appartiene a questa razza rara — quella dei rivoluzionari che hanno più libri che fucili, più idee che milizie. E proprio per questo, dopo ventitré anni di prigione, Israele non lo libera e Hamas non lo reclama.
Entrambi sanno che, se domani uscisse, non ci sarebbe più guerra da combattere, ma solo un Paese da costruire
Marwan Barghouti: il ragazzo di Kobar che imparò a pensare in prigione
Barghouti nasce nel 1959 nel villaggio di Kobar, vicino a Ramallah — un luogo dove la terra è rossa, le case bianche e la politica si impara al mercato.
A quindici anni entra in Fatah, il movimento fondato da Arafat, e diventa uno dei promotori dello Shabiba, il movimento giovanile palestinese: voleva educare i ragazzi alla resistenza, ma con la testa, non con la dinamite.
Arrestato da adolescente, trascorre lunghi periodi nelle carceri israeliane, dove impara due cose: l’ebraico e la disciplina.
È lì, tra un interrogatorio e l’altro, che inizia a leggere di storia, economia, geopolitica.
E quando finalmente si iscrive all’università di Birzeit, studia scienze politiche e storia come un uomo che ha capito che la vera arma è il pensiero.
Nel 1994 si laurea, poi ottiene un master in relazioni internazionali, e infine — ironia suprema — un dottorato in scienze politiche dalla sua cella, con una tesi sulla democrazia palestinese.
Un “professore in prigione”, dunque: non di quelli con la cattedra e la tessera sindacale, ma di quelli che insegnano a voce bassa nei cortili delle carceri, spiegando la differenza tra rabbia e dignità.
Dal sogno di Oslo al carcere
Negli anni ’90, Barghouti partecipa ai colloqui di Oslo: ci crede, ingenuamente. Crede che un giorno ci sarà uno Stato palestinese che non avrà bisogno di sparare per farsi rispettare.
Quando il processo di pace naufraga e scoppia la Seconda Intifada, è lui a cercare di tenere insieme la rabbia della strada e la diplomazia dei palazzi.
Per Israele diventa “il cervello della rivolta”, per il suo popolo “la coscienza della resistenza”.
Nel 2002 viene arrestato, processato e condannato a cinque ergastoli e quarant’anni extra — un modo elegante per dire: “non ti libereremo mai”.
Al processo rifiuta di difendersi: “Non riconosco il vostro tribunale, siete l’occupante”.
Un gesto che lo trasforma in un’icona: da quel momento, per milioni di palestinesi, Marwan Barghouti ingiustamente condannato é spesso identificato come il 'Mandela palestinese'.
Il docente dell’ombra
Dentro la prigione di Hadarim, Barghouti non smette di insegnare.
Organizza lezioni di politica, corsi di lingua, seminari su diritto internazionale.
Forma generazioni di detenuti che lo chiamano “al-ustādh”, il professore.
“Non insegnava come un accademico”, ricorda un ex detenuto, “ma come chi ha perso tutto tranne la voce”.
Da quella cella scrive, studia, guida scioperi della fame, e persino redige, nel 2006, il “Documento dei prigionieri”, una bozza di riconciliazione fra Fatah e Hamas.
Un gesto di dialogo che fece infuriare entrambi: i primi lo accusarono di trattare con gli islamisti, i secondi di parlare di democrazia.
Il leader che spaventa due poteri
Israele non lo libera perché sa che, se uscisse, nessun altro palestinese avrebbe più legittimità di lui.
Hamas non lo vuole libero perché un leader laico e carismatico, capace di unire anziché dividere, distruggerebbe il loro monopolio morale.

E così Barghouti resta dov’è: ostaggio di due paure speculari.
Nel 2017 il ministro israeliano Itamar Ben-Gvir, erede spirituale della destra più estrema, andò a provocarlo nella cella.
Il risultato? Una foto imbarazzante: un ministro armato di potere che sfida un prigioniero armato solo di idee.
E nella storia, si sa, a lungo andare vincono sempre le idee.
La moglie Fadwa, la voce libera
Fuori, la moglie Fadwa Al-Barghouti continua a lottare.
Avvocata, diplomata in legge, gira il mondo raccontando la storia del marito con la calma di chi ha imparato a contare gli anni, non i giorni.
Nel 2013 lanciò la campagna per la sua liberazione da Robben Island, l’isola dove fu imprigionato Nelson Mandela.
Una coincidenza che non è solo simbolica: è la confessione di una verità scomoda — che ogni potere coloniale ha bisogno di un Mandela da tenere chiuso per sentirsi al sicuro.
Il futuro che fa paura
Oggi, ogni volta che si parla di scambi di prigionieri, il suo nome ricompare e scompare come un fantasma.
Troppo importante per dimenticarlo, troppo pericoloso per liberarlo.
Eppure, in tutta la Palestina, le sue foto appese alle pareti sono più numerose di quelle di qualunque presidente o capo milizia.
È questo il suo potere: essere libero nell’unico luogo dove gli altri sono prigionieri — le loro ideologie.

Così, tra le mura di un carcere israeliano, un uomo insegna ancora.
Insegna che si può resistere senza odiare,
che si può vincere senza uccidere,
e che la libertà vera non è una concessione, ma un contagio.
Per questo né Hamas né Netanyahu vogliono che esca:
perché un uomo che insegna la libertà non si controlla, si teme.

Per The Economist è "il prigioniero più importante del mondo", nel 2010 candidato al Nobel per la Pace. Quel che è certo è che il nome di Barghouti, l'ex segretario generale di Fatah in Cisgiordania e capo della milizia Tanzim. E da settembre 2023 è in testa a tutti i sondaggi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sul candidato più popolare per assumere la presidenza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). 

Forse, se vogliamo davvero la pace in Medio Oriente, dovremmo essere noi, "i paesi democratici", a chiedere con forza che venga rilasciato.
Dovremmo smettere di stare a guardare, sperando di fare soldi con la guerra prima e con la ricostruzione dopo.

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