sabato, ottobre 04, 2025

Israele è colpevole anche di ecocidio


da l'Internazionale del 3 Ottobre di George Monbiot

Le Nazioni Unite hanno riferito che a Gaza solo l’1,5 % dei terreni agricoli è accessibile o non danneggiato. Se si considerano insieme l’ecocidio e il genocidio, si comincia a cogliere la totalità del tentativo dello stato israeliano di eliminare sia i palestinesi sia la loro terra

Un popolo senza terra e una terra senza popolo: sembrano questi gli obiettivi del governo israeliano per Gaza. Ci sono due metodi per raggiungerli. 

Il primo consiste nell’uccidere ed espellere in massa i palestinesi. 
Il secondo consiste nel rendere quella terra inabitabile. 

Accanto al crimine di genocidio si sta compiendo un altro grande orrore: l’ecocidio.

Mentre la distruzione di edifici e infrastrutture a Gaza è evidente in ogni video che vediamo, meno visibile è la distruzione parallela di ecosistemi e mezzi di sussistenza. 

Prima delle atrocità del 7 ottobre che hanno provocato l’attuale aggressione a Gaza, era coltivato circa il 40 % della terra palestinese. Nonostante la sua densità abitativa estremamente alta, Gaza era per lo più autosufficiente per quel che riguardava ortaggi e pollame e riusciva a soddisfare gran parte della domanda della popolazione di olive, frutta e latte. 

Ad agosto, però, le Nazioni Unite hanno riferito che solo l’1,5 % dei suoi terreni agricoli è accessibile o non danneggiato. Si tratta di circa duecento ettari: l’unica superficie disponibile per sfamare più di due milioni di persone.

Una delle cause è la sistematica distruzione di terreni agricoli compiuta dall’esercito israeliano. 
Le truppe di terra hanno demolito le serre, le ruspe hanno abbattuto i frutteti, hanno sbancato le colture e danneggiato il suolo, mentre gli aerei hanno irrorato di erbicidi i campi coltivati.

L’esercito israeliano giustifica questi attacchi sostenendo che “Hamas opera spesso dall’interno di frutteti, campi e terreni agricoli” (e, a quanto pare, anche da ospedali, scuole, università, stabilimenti industriali e altre risorse da cui dipendono i palestinesi). Per giustificare la devastazione i militari devono semplicemente insinuare che Hamas ha operato o potrebbe operare dal luogo che l’esercito vuole distruggere. E poi se non ci sono prove, scusateci, è troppo tardi.

L’esercito sta progressivamente ampliando la “zona cuscinetto” lungo il confine orientale di Gaza, quella che comprende la maggior parte dei terreni agricoli della Striscia. Come sottolinea Hamza Hamouchene, studioso esperto di diritti umani, invece di “far fiorire il deserto” (come recita un pilastro della sua propaganda di stato) Israele sta trasformando terre fertili e produttive in un deserto. 

Da decenni il governo israeliano abbatte gli ulivi secolari dei palestinesi per privarli dei mezzi di sussistenza, per colpirne il morale e spezzare il loro legame con la terra. Gli uliveti sono fondamentali su un piano materiale, perché rappresentano il 14 % dell’economia palestinese, e allo stesso tempo sul piano simbolico: se non ci sono ulivi, non può esserci nessun ramoscello d’ulivo. 

La politica della terra bruciata attuata da Israele, insieme al blocco delle forniture alimentari, garantisce la carestia. 

L’attacco dell’esercito israeliano a Gaza ha causato un collasso dei sistemi di smaltimento delle acque reflue. I liquami non trattati inondano i terreni, si infiltrano nelle falde e inquinano le acque costiere. Lo stesso succede con i rifiuti solidi: montagne di spazzatura restano a marcire e bruciare tra le rovine o finiscono in discariche informali, inquinando i terreni con sostanze tossiche.

Prima dell’attacco israeliano cominciato nel 2023 la popolazione di Gaza aveva accesso a circa 85 litri d’acqua pro capite al giorno, che pur per poco rientra nei livelli minimi raccomandati dalle Nazioni Unite. A febbraio di quest’anno la media era scesa a 5,7 litri. 

L’importantissima falda acquifera costiera di Gaza è ulteriormente minacciata dalla pratica attuata dall’esercito israeliano d’inondare i tunnel di Hamas con acqua di mare: l’intrusione di sale oltre una certa soglia renderà la falda inutilizzabile.

L’anno scorso il Programma ambientale dell’Onu ha stimato che a ogni metro quadro di Gaza corrispondeva una media di 107 chili di detriti derivanti dai bombardamenti e dalla distruzione. Molte di queste macerie contengono amianto, ordigni inesplosi, resti umani e tossine rilasciate dalle armi. Le munizioni contengono metalli come piombo, rame, manganese, composti dell’alluminio, mercurio e uranio impoverito. Ci sono informazioni credibili secondo cui l’esercito di Tel Aviv avrebbe usato illegalmente anche il fosforo bianco, un’arma chimica e incendiaria che causa anche una diffusa contaminazione di suolo e acqua. Le polveri tossiche e l’inalazione dei fumi hanno un impatto molto pesante sulla salute delle persone.

Oltre alle devastanti ricadute immediate sulla vita degli abitanti di Gaza, le emissioni di anidride carbonica provocate dall’attacco israeliano sono astronomiche: a quelle dirette causate dalla guerra si devono aggiungere gli impressionanti costi climatici della ricostruzione di Gaza (se mai questa sarà consentita), che da sola produrrebbe un quantitativo di gas serra equivalente alle emissioni annuali di un paese di media grandezza.

Se si considerano insieme l’ecocidio e il genocidio, si comincia a cogliere la totalità del tentativo dello stato israeliano di eliminare sia i palestinesi sia la loro terra. Come afferma l’ecologo palestinese Mazin Qumsiyeh, “il degrado dell’ambiente non è accidentale, è intenzionale, prolungato e mira a spezzare l’eco-sumud (la tenacia ecologica) del popolo palestinese”.

Negli ultimi anni ho scritto molto poco sull’impatto ambientale delle forze armate, perché ho la sensazione che se non riusciamo a convincere i governi che è sbagliato uccidere le persone, non riusciremo mai a convincerli che anche uccidere altre forme di vita è sbagliato. 

Credo che tanti altri abbiano pensato la stessa cosa e questo è uno dei motivi per cui gli eserciti tendono a essere risparmiati dalle critiche ambientaliste rivolte ad altri settori. Eppure, la loro impronta ecologica, anche in tempi di pace, è immensa.

Secondo le stime del Conflict and Environment Observatory (Ceobs) – un ente di beneficenza britannico dedicato alla ricerca e alla sensibilizzazione sull’impatto ambientale dei conflitti e delle attività militari – le forze armate di tutto il mondo producono circa il 5,5 % delle emissioni globali di gas serra. 

Tuttavia, in parte come conseguenza delle pressioni del governo statunitense, sono esentati dalle rendicontazioni obbligatorie previste dall’accordo sul clima di Parigi. Quasi mai, inoltre, si chiede conto agli eserciti della vasta gamma di altri danni ambientali causati, dalla deforestazione all’inquinamento, dalla distruzione del suolo allo smaltimento illegale.

Nessuna persona impegnata nelle questioni ambientali chiede mai “proiettili verdi” o “bombe verdi”, ma di tanto in tanto i ricercatori militari e i dipartimenti della difesa tentano di convincerci che oggi possono far esplodere degli esseri umani in modo sostenibile. 

Da molti anni chi lotta per cause legate all’ecologia afferma che la pace e la difesa dell’ambiente devono andare di pari passo. La guerra è devastante per gli ecosistemi tanto quanto lo è per le persone, e le crisi ambientali sono una causa importante di conflitti.

Per il governo israeliano, invece, la cancellazione degli ecosistemi e dei mezzi di sussistenza delle persone sembra essere un obiettivo strategico cruciale. 

Israele sembra perseguire quello che alcuni hanno definito “olocidio”: la distruzione totale di ogni aspetto della vita a Gaza. Anche senza una specifica normativa sull’ecocidio, chiesta da molti attivisti ambientalisti, la distruzione degli ecosistemi palestinesi è una chiara violazione dell’articolo 8 dello Statuto di Roma – il trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale firmato nel 1998 e in vigore dal 2002 – e dev’essere presa in considerazione insieme al grave crimine di genocidio previsto dal trattato.

Ma se il piano finale è quello di creare una “Riviera di Gaza”, o un progetto simile per costruire un’inquietante metropoli ipertecnologica d’élite che cancella la storia e il legame con quella località – come quello a cui aspirano Donald Trump e alcuni politici israeliani di primo piano – a che servirebbero allora gli alberi, il suolo o le colture? I colpevoli non pagheranno alcun prezzo. Almeno finché non saranno assicurati alla giustizia.

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