Da "il Corriere della Sera - La Lettura del 16 Febbraio 2025"
Per un toscano o un veneto il
vino non è semplicemente una bevanda o un cibo o una fonte di euforia, ma un
simbolo della vita quotidiana, della convivialità e, per gli intellettuali, un
nutrimento della stessa ricerca del sapere. Galileo Galilei (1564-1642), che
visse i suoi anni giovanili tra Pisa e Firenze e poi la maturità a Padova prima
di tornare a Firenze, fu esposto sin da giovane alla tradizione enologica.
Il vino, oltre a essere una
componente fondamentale della dieta mediterranea, era — come lo è ancora oggi —
al centro di dibattiti filosofici e artistici. Pensiamo ai quadri di Tiziano,
Caravaggio o Guido Reni e agli scritti di Boccaccio, Poliziano, Lorenzo il
Magnifico e delle corti medicee, fino al poema Bacco in Toscana di
Francesco Redi, di pochi anni successivo a Galileo. Nell’ode Contro il
portar la toga scritta a venticinque anni durante la docenza triennale
presso l’ateneo pisano (la cui breve durata sembra in parte dovuta alla
volgarità dell’ode stessa nei confronti dei colleghi di rango superiore),
Galileo elenca le molte osterie di Pisa da lui frequentate, e discute la
correlazione inversa tra la bellezza delle bottiglie e la qualità del vino.
Galileo si trasferì a Padova nel
1592 e vi trascorse diciott’anni, da lui stesso poi definiti i migliori della
sua vita. Acquistò una casa in via dei Vignali (oggi via Galilei) con un
terreno a vigna, e cominciò a produrre vino. Oltre a produrlo, ne comperava e
ne riceveva in dono: vini veneti, rossi toscani e vini del sud della penisola e
della Grecia. Il suo allievo prediletto e biografo, Vincenzo Viviani, oggi
sepolto con lui in Santa Croce, scrisse che Galileo amava «l’esquisitezza e
varietà de’ vini d’ogni paese [...]: e tale era il diletto ch’egli aveva nella
delicatezza de’ vini e dell’uve e del modo di custodire le viti ch’egli stesso
di propria mano le potava e le legava negli orti delle sue ville, con
osservazione, diligenza e industria più che ordinaria, e in ogni tempo si
dilettò grandemente dell’agricoltura, che gli serviva insieme di passatempo e
d’occasione di filosofare».
Galileo stimava in circa quattro
bozze la quantità di vino che quattro amici possono bere insieme in una serata
di conversazione.
- L’unità di misura veneta di capacità era il mastello, che a
Padova conteneva circa 71 litri (la quantità variava da città a città).
- Un
mastello si divideva in 72 bozze (bottiglie di circa un litro);
- una bozza si
divideva in 4 goti (bicchieri).
- Un goto equivaleva a circa il doppio dell’unità
minima, detta «ombra», ancor oggi in uso in Veneto.
Galileo amava parlare di vino, in
particolare con il suo allievo e poi amico Giovanfrancesco Sagredo. Dopo la
prematura scomparsa di Sagredo nel 1620, Galileo lo renderà immortale facendolo
protagonista del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632)
e dei Discorsi e dimostrazioni matematiche (1638). Sagredo introdusse
Galileo nell’alta società veneziana e alla gioia di bere. Quando divenne
tesoriere della Repubblica veneziana a Palma (oggi Palmanova), per invogliarlo
a fargli visita, Sagredo gli descrisse con passione i vini friulani e istriani.
Nel novembre 1606 gli scrisse: «Quest’anno i vini da Buri [Buttrio] molto
famosi non sono riusciti dolci, et quelli da Rosazzo sono tra il dolce et il
garbo; ma nel costo riescono salati, poiché si vendono [...] a [...] l’istesso
che la Malvasia in Venetia. Io, con tutto questo, ne ho compro tre mastelli,
uno de’ quali ho mandato al Signor Donà Moresini [il Doge], che me lo ricercò,
uno si è quasi bevuto, et un altro si è fatto mez’acqua, né è cosa degna di lei.
Qui ho gustati vini d’Istria, moscateli e ribole assai buone, et l’anno venturo
spero farne qualche provisione per qualche amico et per qualche amica».
Moscatelli e ribolle, oggi ben
noti, erano già molto apprezzati all’epoca, come documentato nel Trattato
della coltivazione delle viti di Giovanni Vittorio Soderini pubblicato da
Giunti nel 1600, un ricco catalogo della biodiversità viticola dell’epoca, con
la descrizione di una cinquantina di varietà. Il pittore Bartolomeo Bimbi
(1648-1729) ha dipinto accuratamente queste uve.
A Galileo il vino suggeriva anche
immagini poetiche.
Bellissima è la frase «Il vino è composto di umore e luce».
Insomma, per Galileo il vino, frutto dell’interazione tra sole, terra e acqua,
era una testimonianza materiale dell’armonia del mondo. E anche dell’ingegno.
Galilei usò il vino rosso come «tracciante» in esperimenti di idraulica. In
particolare, nei suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche descrive
un esperimento dal risultato sorprendente: «S’io empio d’acqua una palla di
cristallo, che abbia un foro angusto quant’è la grossezza d’un fil di paglia, e
così piena la volto con la bocca all’in giù, [...] se io presenterò a quel foro
un vaso con del vino rosso, che quasi insensibilmente è men grave dell’acqua,
lo vedremo subito con tratti rosseggianti lentamente ascendere per mezzo
l’acqua, e l’acqua con pari tardità scender per il vino, senza punto
mescolarsi, sin che finalmente la palla si empirà tutta di vino e l’acqua
calerà tutta nel fondo del vaso di sotto». Molti filosofi non ci credettero (anche
Alexandre Koyré nel XX secolo), ma Galileo aveva ragione: in assenza di
instabilità e turbolenze, i due liquidi si scambiano sorprendentemente di posto
senza mescolarsi.
Galileo applicò la scienza anche
alla produzione del vino, in particolare nell’ultima parte della vita.
Soprattutto dal 1617, quando si stabilì in una casa di Bellosguardo che aveva
una buona vigna, e dal 1631 nella villa Il Gioiello di Arcetri — trovata dalla
figlia primogenita e prediletta Virginia, divenuta suora col nome di Maria
Celeste — Galileo si dedicò con assiduità alla viticoltura.
Il Gioiello
disponeva di un’ampia vigna, confinante con il convento di suor Maria Celeste.
Nella tecnica di vinificazione «alla toscana» l’uva veniva pestata nei tini e
lasciata con le vinacce fino a venti giorni, poi il mosto veniva messo in
piccole botti, tenute aperte fino al giorno di San Martino. Conclusa questa
fermentazione, se il vino era buono si chiudevano le botti e si iniziava a
berlo.
Questo metodo dava vini privi di «possanza» anche se con un tenore
alcolico non lontano da quello dei vini odierni: poteva arrivare a 10 o perfino
13 gradi.
Ai tempi di Galileo la moda però stava cambiando: si stava passando a
vini più decisi, svinando le botti non prima di Natale. Accanto a vini comuni
ottenuti mescolando uve diverse si stava inoltre diffondendo l’usanza di vini
monovarietali.
Galileo inventò un metodo
innovativo per fare il vino. Ne parla Viviani: «Per cavare da un medesimo tino
il vino dolce e maturo, e far che vi resti l’agro, si faccia empiere il tino di
uve senza ammostare in grappoli intieri, e si lasci così stare qualche poco di
tempo; che sturando la cannella, uscirà vino maturo, che sarà quello dei grani
delle uve più maturi, spremuti dal peso e carico proprio dei grappoli, che sono
i primi a scoppiare, e dopo che sarà uscito tal vino dolce, pigiando et
ammostando l’uve ne uscirà il vino assai meno maturo, anzi assai agro». Sono
gli elementi di una tecnica oggi chiamata macerazione carbonica, vinificazione
in un’atmosfera povera di ossigeno e ricca di anidride carbonica (la quale
nella procedura di Galileo veniva prodotta dalla fermentazione in ambiente
chiuso) che favorisce la formazione di aromi di frutti rossi e limita
l’asprezza e l’astringenza.
Fu l’enologo francese Michel Flanzy a codificarla
nel 1934, dando origine ai vini novelli come il Beaujolais nouveau, venduto in
tutto il mondo dal terzo giovedì di novembre, e a produzioni come i vini
novelli italiani.
Grazie alla prestigiosa Accademia
dei Georgofili, che dal 1753 promuove studi legati all’agricoltura, è stata
ricostruita la cantina della villa di Galileo. Essa possedeva almeno tre botti
(di ciliegio, oggi poco usato ma che dava al vino profumi particolari), quattro
barili e gli strumenti necessari alla produzione. Le misure di capacità
normalmente utilizzate in Toscana venivano dalla tradizione medievale. Un
fiasco (all’epoca di Galileo privo dell’impagliatura, poi introdotta per
proteggere il vetro da urti e luce) conteneva circa 2,28 litri e corrispondeva
a otto quartucci; un barile conteneva 20 fiaschi, circa 46 litri. Le botti non
avevano una capacità standard, e corrispondevano a quattro barili ma anche a
sei. Galileo attingeva a vini di tipologie diverse «due e a quattro fiaschi per
volta, ora bianco, ora rosso» per evitare che si guastasse rimanendo nelle
botti.
Molte informazioni sul rapporto
tra Galileo e il vino vengono dal suo carteggio, in particolare con la figlia
Maria Celeste. Di lei possediamo 124 lettere al padre (dal 1623 alla sua morte
nell’aprile 1634, otto anni prima della scomparsa di Galileo), e tra queste ben
36 menzionano il vino.
Sappiamo che Galileo produceva vino bianco (il preferito
di Maria Celeste) e rosso, e ne faceva dono alla figlia e alle sue consorelle
(fra cui l’altra figlia, suor Arcangela, con la quale Galileo non parlava). Tra
le uve bianche coltivate c’erano la verdea, casta poi caduta in disuso e
recentemente recuperata, citata anche nell’ode Contro il portar la toga, e
la lugliola. Sappiamo inoltre che il vino di Galileo non sempre riusciva buono
(lettera dell’ottobre 1633). Purtroppo non possediamo le risposte di Galileo,
probabilmente distrutte dalla superiora per timore di attirare sul convento
accuse di eresia.
Anche in Toscana Galileo non solo
produceva vino ma ne acquistava e ne riceveva in regalo. Dalla corte medicea
giungevano vini provenienti dalle cantine del Granduca o dalle fattorie. Non
mancavano grossi acquisti: suor Maria Celeste parla in una lettera del 1633
dell’arrivo da San Miniato di dieci barili di vino. Da un’altra missiva del
1634 sappiamo che Geri Bocchineri, segretario del Granduca Ferdinando II e
amico di Galileo, si offrì di procurargli «cinque barili, bianco, rosso,
ciliegiuolo, chiarello, claretto [i claretti venivano prodotti soprattutto in
Provenza], bruschetto, piccante, dolce, e di qualunque altro colore o sapore
che vostra signoria desideri». Galileo inviava salumi all’amico Ascanio
Piccolomini di Siena per averne in cambio vini prodotti in una vigna presso
Montalcino.
Avere una cantina ben fornita fu
per Galileo una grande consolazione. E quando il vino scarseggiava scriveva
lettere ansiose, come quella all’amico Benedetto Guerrini, nel nevoso marzo
1637, in cui afferma di preferire ormai il piacere del vino a quelli dell’amore
e del cibo, e di gradire i vini calabresi, siciliani e i claretti. «I freddi
eccessivi, l’uno della stagione e l’altro della mia vecchiaia, l’esser ridotto
al verde il regalo grande di due anni fa delli 100 fiaschi, [...] oltre
all’essermisi guastato il vino di due botticelle di questo del paese, mi
mettono in necessità di ricorrere al sussidio e favore di V. S. [...], 40
fiaschi, non curando punto di risparmio di spesa, perché risparmio tanto in
tutti gli altri gusti corporali, che posso lasciarmi andare a qualche cosa a
richiesta di Bacco, senza offesa delle sue compagne Venere e Cerere. Costì non
debbon mancare Scillo e Carino, né meno la patria del mio maestro Archimede
Siracusano; i Grechi, i Claretti ecc. Avranno, come spero, comodo di farmeli
capitare col ritorno delle casse della dispensa».
Un episodio curioso riguarda la
polemica sulla natura delle comete che vide contrapposti Galileo e il gesuita
Orazio Grassi, che culminò nell’opera Il Saggiatore (1623) in cui il
Maestro affermava di voler analizzare il problema con «bilancia esquisita e
giusta», per l’appunto una bilancia da saggiatore, in contrasto con la rozzezza
del suo rivale. Grassi gli rispose traducendo provocatoriamente «saggiatore» in
«assaggiatore», alludendo alla sua passione per il vino. Curiosamente, invece
di rispondere con sarcasmo, Galileo replicò stizzito.
Non sembra comunque che Galileo
abusasse del vino, se non raramente. Una leggenda vuole che appena giunto in
Veneto, dopo un’abbondante libagione in una villa sui colli di Costozza, egli
si fosse addormentato sulla bocca d’aria di un «ventidotto» (un condotto per
rinfrescare gli ambienti con aria proveniente da una grotta) e si fosse
risvegliato con dolori dai quali non guarì mai.
Periodi di difficoltà possono
favorire qualche eccesso, e Galileo ne ebbe diversi. In una lettera dolcissima
del 4 giugno 1633, a Roma per il processo che si sarebbe concluso con la sua
condanna, la figlia gli scrive: «Mi dispiace che le sue doglie non la lascino,
se bene par quasi necessario che il gusto ch’Ella sente nel bere cotesti vini
così eccellenti sia contrapesato da qualche dolore, acciò, astenendosi dal
berne maggior quantità, venga ad ovviare a qualche altro maggior nocumento che
potrebbe riceverne».
Quando nel 1638 ricevette la
visita di John Milton, che nel suo Paradiso perduto (1667) lo cita
ben tre volte (unico contemporaneo menzionato nel poema), Galileo era da poco
divenuto cieco. E particolarmente triste e «mal ridotto», come scrisse Viviani,
anche per il «sagrifìzio, per lui gravissimo, di dover rinunziare al vino,
contro l’abuso del quale e in termini amorevolissimi lo ammoniva la prediletta
sua primogenita».
Negli ultimi anni, inoltre, i
denti di Galileo si deteriorarono. L’autopsia rivela che «nella mandibula
superiore mancavano tutti i denti, fuori dei due ultimi molari, ed erano per la
vecchiezza totalmente aboliti gli alveoli; [al]la mandibula inferiore mancavano
parimente tutti i denti fuori che i quattro incisori, e i due ultimi molari».
Non è dunque escluso che il vino facesse da nutrimento al vecchio Galileo, il
quale, a quanto riferì Viviani, diceva: «Questo bere mi conduce alla bara».
La passione di Galileo per il
vino, ampiamente documentata, ha in parte associato il genio toscano alla
diffusa idea dell’ebbrezza alcolica come via privilegiata per accedere a verità
nascoste o nuove forme di conoscenza.
Tuttavia, per quanto centrale nella vita
di Galileo, e nonostante le raccomandazioni e talvolta i rimproveri della sua
prediletta primogenita, questo rapporto pare restare abbastanza sano, anche in
relazione ai costumi dell’epoca e alle abitudini di altri grandi scienziati
contemporanei come Keplero.
In un periodo in cui il sapere era spesso soggetto
a censura e dogmi, e l’acqua non di rado risultava putrida, possiamo facilmente
immaginare Galileo sorseggiare un bicchiere di vino mentre rifletteva sulle
orbite planetarie o sulle leggi del moto, trovando in quella bevanda conforto e
ispirazione.