Ricevo e volentieri pubblico un teso di Ottorino Pagani (tratto da Mauro del Corno 15 Dicembre
2025)
È un quadro devastante quello che
emerge dallo studio
dedicato alla dinamica dei redditi nell’industria italiana, realizzato
da un gruppo di docenti dell’Università La Sapienza di Roma, guidati
da Riccardo Gallo. Ci sono gli elementi per capire molto
delle difficoltà e degli squilibri non solo della nostra
economia, ma anche della nostra società.
L’apatia (provvidenziale
l’etimologia: assenza di passione) della nostra industria, la cui
produzione affonda da quasi due anni. Il progressivo e inesorabile impoverimento anche
di chi ha un lavoro.
Negli ultimi anni “il
travaso di ricchezza dai lavoratori al capitale è stato pazzesco”, osserva
Gallo. Questa considerazione è motivata dall’analisi dei dati sul fatturato
delle aziende italiane di medie e grandi dimensioni che,
periodicamente, vengono diffusi dal centro studi di Mediobanca.
Nel 2023 il giro d’affari di
queste imprese risultava superiore del 34% a quello del 2019,
l’ultimo anno prima dello choc pandemico. Simile la crescita del valore
aggiunto, che possiamo definire come la ricchezza creata dalle imprese
realizzando prodotti con l’utilizzo degli elementi base e che risultava superiore
del 33%. Una crescita dovuta in parte dall’inflazione ma
non in maniera determinante. In generale, inoltre, le
aziende italiane del campione mostravano un’ottima salute patrimoniale e
finanziaria.
Ma dove è andata a finire
questa ricchezza prodotta?
Qui stanno i dati più
sorprendenti. Mentre tra il 2020 e il 2023 il peso del fisco è
rimasto sostanzialmente identico, la quota confluita nei redditi da
lavoro è scesa di ben il 12%.
Viceversa, la remunerazione degli
azionisti è aumentata del 14%. “I soci, spiega poi Gallo,
hanno prelevato l’80% degli utili come dividendi e hanno
lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti”.
Questi che Gallo definisce “avari investimenti”, per di più, sono andati per il 40% in materiali per le fabbriche e, per un più cospicuo 60%, per acquisire partecipazioni finanziarie.
In sostanza nell’ammodernamento degli impianti
industriali si è speso pochissimo, nonostante la fase di
prosperità, tanto che l’età media delle immobilizzazioni (i
macchinari, per intenderci) è rimasta stabile a 19 anni, “segno che
sono stati fatti investimenti di puro mantenimento“.
Come noto, un tasto su cui
imprenditori (ed opinionisti al seguito) battono incessantemente è che gli
aumenti salariali possono arrivare solo se si accresce la produttività del
lavoro.
Questo non significa che i lavoratori devono lavorare di più (le ore lavorate in Italia sono già tra le più alte d’Europa e le ore di assenza per malattia tra le più basse del mondo occidentale), ma che dovrebbero avere strumenti migliori e/o processi organizzativi più efficienti per le loro mansioni.
Si pensi ad un
esempio semplice ed intuitivo: la terra che, nello stesso intervallo di tempo,
un contadino può lavorare con un aratro spinto a mano oppure con uno agganciato
ad un trattore. Ma, naturalmente, se gli industriali investono poco,
la dotazione di cui dispongono i loro dipendenti non migliora e la loro produttività
ristagna. Gli investimenti si possono finanziare anche attraverso i
prestiti, non solo usando a tal fine una parte più o meno cospicua dei
guadagni, ma anche da questo lato i riscontri sono poco incoraggianti.
Va dato atto a Il Sole 24
Ore di aver ospitato per primo il contributo di Gallo, che
sul giornale degli industriali ha descritto i risultati emersi. E
poi allo storico Sergio Bologna che, dalle colonne de Il
Manifesto, ha giustamente sollecitato una maggior attenzione al rapporto
anche, e soprattutto, da parte dei rappresentanti dei lavoratori, al fine
di dare maggiore consistenza alle loro rivendicazioni.
Tra le ragioni che vengono
individuate nello studio per il crescente squilibrio nella distribuzione della
ricchezza prodotta, c’è infatti anche il mancato rinnovo di molti
contratti collettivi di lavoro.
Tra i quasi 6 milioni di
dipendenti di aziende aderenti a Confindustria,
il 53% ha un CCNL
scaduto negli ultimi 12 mesi,
il 10% ne ha uno
scaduto da oltre due anni e
il 13% ne ha uno che scadrà nei prossimi mesi.
Gran parte dei dipendenti lavora
pertanto con contratti scaduti che, in concreto, significa una diminuzione
del salario, visto che i recuperi del periodo di latenza una volta che
il CCNL viene finalmente rinnovato non coprono mai integralmente il potere
d’acquisto perso nel frattempo.
La caduta della quota di
ricchezza appannaggio dei lavoratori non è stata prerogativa solo
italiana, ma nel nostro paese è risultata decisamente più marcata
rispetto a quanto accaduto in Germania mentre in Francia si
registra addirittura un aumento.
Nello studio si analizza anche
questa “disaffezione imprenditoriale”.
Leggiamo: “In linea di principio
i soci dovrebbero considerare orgogliosamente la propria società come l’ambito
più conveniente sul mercato e quindi dovrebbero lasciare l’intero utile
netto di esercizio nell’impresa per farlo reinvestire”.
E invece, come abbiamo visto, in
azienda rimangono appena due euro ogni dieci. L’indice di
indebitamento, per di più, è rimasto stabile e contenuto.
Le società non hanno aumentato
l’indebitamento (e quindi gli investimenti finanziati con i prestiti), “non
già per scarsità del credito come troppo spesso si dice con
superficialità, quanto piuttosto per disaffezione al rischio di impresa.
Una disaffezione basata su incertezza,
perdita di competitività del paese, eccetera”.
Un cane che si morde la coda,
insomma, perché meno si investe meno la competitività cresce (a meno di non
spingere solo sulla compressione dei salari - come in realtà è avvenuto) e meno l’ambiente invoglia
investimenti.
Nessun commento:
Posta un commento