Da un'intervista di La Repubblica a Emma Holten
Come è possibile che, nell’era della prosperità diffusa e della rivoluzione tecnologica, i nostri sistemi sociali siano così in crisi?
«Perché la politica persegue solo obiettivi economici misurabili - crescita, aumento dei consumi, della produttività, dell’occupazione - nella convinzione che questo automaticamente possa portare a una società migliore, più prospera.
Ma questi obiettivi ci rendono ciechi rispetto a quello che stiamo perdendo cercando di raggiungerli. Tutto quello che non è “misurabile” da questi numeri ha sempre meno spazio. Il lavoro di cura, gli investimenti collettivi in salute e scuola, e soprattutto la felicità, sono le grandi vittime di questa visione».
Al cuore del suo lavoro, e dell’economia femminista, c’è la consapevolezza che ciascuno di noi ha bisogno del sostegno di qualcun altro. “Il lavoro di cura rende tutti gli altri lavori possibili”, scrive lei. Perché la politica fatica a riconoscerlo?
«La responsabilità risiede nel paradigma economico che si è imposto alla fine degli anni Ottanta. In Europa, dopo il crollo del muro di Berlino, eravamo stanchi di conflitti. Così, invece di decisioni politiche divisive abbiamo optato per decisioni “smart”, burocratiche. La politica ha lasciato il campo a un’ideologia economica fatta solo di liberismo e mercato. E questo è il risultato».
È quella che lei chiama economia neoclassica o “consolidata”. Cos’è?
«È la concezione che ha conquistato un potere culturale sempre più forte e alla fine maggioritario, anche nel giornalismo. Tutto gira intorno ai prezzi. L’idea centrale è che il mercato, e solo il mercato, è il luogo dove si crea il valore e la ricchezza.
Le relazioni sociali, l’amicizia, le comunità locali, la cura non hanno spazio in questa visione. E ancora meno spazio ha il settore pubblico: nessuno considera il valore creato dalla scuola, dalla sanità, dal lavoro domestico, perché tutte queste cose non hanno mercato»
La stessa cosa vale per l’ambiente naturale?
«Sì, infatti. In questo sistema capitalistico l’ambiente e il lavoro di cura sono “fratelli nella sofferenza”. Noi estraiamo costantemente valore dal lavoro di casa e dalla natura ma non diamo niente indietro. Crediamo di diventare più ricchi perché usiamo gratis le persone, il loro tempo, e l’ambiente. Li trasformiamo in prodotti, ma non consideriamo quello che stiamo perdendo».
Cosa perdiamo?
«Oltre alla natura in cui viviamo, perdiamo il tempo libero, la salute, il tempo per la famiglia. In una parola, la qualità della vita».
Con quali conseguenze?
«Un aumento incredibile della frustrazione personale e politica. In tutta Europa vediamo rabbia, risentimento, radicalizzazione sia a destra che a sinistra».
Perché l’economia femminista conviene a tutti e non solo…alle donne?
«Le donne spendono più tempo degli uomini nei lavori che rendono le persone più felici e le mantengono in salute. Per questo la chiamo economia “femminista”, ma conviene a tutti.
Il punto del mio libro non è solo che le donne siano oppresse o che la vita delle donne debba somigliare a quella degli uomini. Anzi, in un certo senso sono proprio gli uomini a soffrire molto in questo sistema, sono loro che lavorano troppo, che stanno poco in famiglia, che si ammalano di più».
Converrebbe anche agli uomini diventare più femministi?
«Gli uomini sono più ricchi rispetto alle donne, ma le loro vite sono più povere e sono più infelici. L’uomo è ridicolizzato dalla società se non dedica tutto se stesso al lavoro o se guadagna meno della sua compagna. Finora ci siamo concentrati su come far entrare più donne nel mondo del lavoro, ma non abbiamo considerato abbastanza come rendere la vita degli uomini più simile a quella delle donne».
Lei torna spesso sul ruolo della cura in famiglia. La destra ne parla molto…
«Questa è una delle ragioni dell’attuale successo del pensiero conservatore. Perché molti si stanno rendendo conto che il lavoro e i soldi non sono tutto, c’è anche altro. E i conservatori hanno “sequestrato” il concetto di famiglia, mentre a sinistra non siamo stati capaci di parlare dell’importanza della famiglia con la stessa efficacia».
È possibile dare un valore, o persino un prezzo, alla felicità o alle emozioni?
«È il punto centrale. Il linguaggio dei numeri non può racchiudere tutta la vita, quello che resta fuori è molto più grande. Ci sono cose a cui non si può dare un prezzo, ma non significa che non hanno valore o che debbano restare invisibili per la politica. Un esempio che cito nel mio libro è il rapporto diretto che osserviamo in tutto il mondo fra i tagli ai servizi sociali e la radicalizzazione politica: se vuoi che la democrazia funzioni, non basta che l’economia vada bene, le persone hanno bisogno di sentirsi prese in carico. Guardiamo all’America, il Paese più ricco del mondo è oggi anche quello dove la frustrazione di alcuni ceti sociali è più estrema».
E quindi? Come uscirne?
«Per molto tempo anche l’economia femminista ha pensato che la soluzione fosse di dare un prezzo alle cose che non ce l’hanno, per esempio un’ora passata a casa con un bimbo. Io però la vedo in maniera differente. Per me la politica deve riconoscere che ci sono cose economicamente non quantificabili. Possiamo dare un valore a un appartamento, ma non possiamo quantificare quanto una casa significhi per una famiglia che non ce l’ha. Per questo la politica deve integrare le sue scelte con altre discipline oltre all’economia: con la sociologia, l’antropologia e naturalmente la psicologia»
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