Mezzo secolo fa il film di Milos Forman dal romanzo di Ken Kesey, entrò in un mondo di matti che forse tanto matti non erano. Anzi: matti non lo erano affatto. Jack Nicholson commosse il pubblico di tutto il mondo, e oggi "La Lettura" ha chiesto allo psichiatra-scrittore Paolo Milone che cosa c'è di vero in quella pellicola. E che cosa c'è di noi
«Ma chi diavolo vi credete di essere, vacca troia, pazzi davvero? E invece no, voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada». Questa, con le parole del doppiaggio italiano, è una delle sfuriate più memorabili, e per certi aspetti più fuorvianti, che Randle P. McMurphy (Jack Nicholson) rivolge alla banda dei compagni «picchiatelli» durante una disumanizzante seduta di gruppo guidata dalla gelida Infermiera Ratched. Qualcuno volò sul nido del cuculo è una di quelle opere che si definiscono «di culto», con i suoi riti e i suoi adepti. In Italia è disponibile su alcune piattaforme, qui sulla scrivania tengo una copia del Dvd comprato chissà quando, con la faccia di Randle-Jack che se la ride guardando in alto.
Alla radio pubblica americana Npr, pochi giorni fa, lo psichiatra Ken Duckworth, responsabile della National Alliance on Mental Illness, ha raccontato di avere visto il film poco dopo la sua uscita: «Avevo 17 anni e mio padre in quel periodo faceva avanti e indietro dall’ospedale per una grave forma di disturbo bipolare. La freddezza istituzionale e industriale di quel posto l’ho ritrovata nel film». Per Duckworth One Flew Over the Cuckoo’s Nest «getta lampi di verità sui sovraffollati istituti psichiatrici degli anni Sessanta». Però lascia ancora oggi uno strascico equivoco: «Per esempio quando parli con un paziente affetto da grave depressione sotto terapia farmacologica, e chiedi se ha mai provato con l’elettroshock (oggi praticato soltanto sotto anestesia, ndr), la risposta è: “Oh no. Ha visto cosa è successo a Jack Nicholson? Non permetterò che lo facciano anche a me”».
Effetti collaterali e sanitari di una storia «perfetta dal punto di vista cinematografico, e che inizialmente ha avuto un impatto culturale positivo nell’Italia che si apprestava a chiudere i manicomi», dice a «la Lettura» Paolo Milone, classe 1954, psichiatra e autore per Einaudi di due libri bellissimi che partono dalla sua esperienza di lavoro: L’arte di legare le persone (2021) e Una piccola fine del mondo uscito quest’anno.
«Fin dalla prima volta che lo vidi, avevo 22 anni e stavo ultimando la specializzazione all’università, trovai che c’era un elemento che stonava, che non tornava dal punto di vista medico. È un po’ come quando scrivo qualcosa di bello sotto l’aspetto narrativo e però mi accorgo che non corrisponde alla realtà, perché la realtà incespica continuamente, come posso dire?, la realtà è brutta, è zoppa, e invece la penna mi ha preso la mano. Allora cancello e riparto».
Fortuna che il regista Miloš Forman non ha fatto la stessa cosa, lavorando sul romanzo pubblicato da Ken Kesey nel 1962. Milone è d’accordo. Per «la Lettura» ha rivisto il film a 50 anni di distanza, e il sapore nella testa è lo stesso di allora: «Da spettatore mi è piaciuto molto. È una favola bellissima, ma c’entra poco con la psichiatria». Ricorda il giorno in cui ne parlarono a lezione, in clinica psichiatrica a Genova. Il professor Romolo Rossi, punto di riferimento nel mondo della psicoanalisi, disse agli studenti: «Avete visto il film, avete visto che cosa dice sul suicidio? Ma non ci si ammazza mica per quei motivi lì...». Rossi si riferiva alla storia del giovane Billy, il personaggio che, ripensandoci ora, più avrebbe interessato il Milone psichiatra. Ormai il film è così vecchio che probabilmente molti giovani non l’hanno visto e magari potrebbero farlo, perciò non è bello «spoilerare» più di tanto. Diciamo che Billy, come altri compagni (ed è questo che fa arrabbiare Randle: «Ma chi vi credete di essere, matti?») , si trova volontariamente nel reparto sotto le grinfie dell’inflessibile Infermiera Ratched: «Mai visto un personaggio così duro in tutta la mia vita lavorativa», dice Milone, che in qualche modo la salva come paziente nascosta dall’altra parte della barricata, sostenendo che «se una persona così ha scelto questo mestiere, non è solo per il gusto di fare la cattiva, ma perché ne aveva bisogno».
Nel libro da cui è tratto il film lei è ancora più dura: Kesey disse di essersi ispirato a una caposala incontrata in un centro per veterani dove aveva fatto il volontario, ma ammise di averne esagerato i tratti sadici. Il suo contraltare, Randle/Jack, è nel centro psichiatrico per essere esaminato: condannato a sei mesi per aver fatto sesso con una quindicenne (che a suo dire si era spacciata per maggiorenne), per evitare il bagno penale si è finto «picchiatello». Nella Hollywood di oggi un personaggio con un passato del genere non potrebbe diventare l’eroe «spirito libero» di cui parlò il «New York Times» dopo la prima, il 28 novembre 1975, in una recensione che pure bocciava il film come metafora mal riuscita dell’America in subbuglio degli anni Sessanta, salvo promuoverlo sul lato della «commedia umana», con quel gruppo di personaggi che, scriveva Vincent Canby, «sono variazioni di noi spettatori, se solo dovessimo superare la soglia di quella che viene chiamata sanità mentale».
Ecco un punto cruciale: Qualcuno volò non racconta la malattia mentale, dice Milone, «perché il paziente psichiatrico è dominato dal mondo interno, che è difficile da esplorare». Ed è fatto di quella realtà «zoppa, incespicante» che non si addice a una favola hollywoodiana. Miloš Forman ha fatto «un bellissimo film d’azione, che ti acchiappa. Una storia perfetta che arrivò culturalmente al momento giusto». Certo la riforma psichiatrica del 1978 in Italia, sostiene l’autore di Una piccola fine del mondo, non fu il prodotto della rivoluzione di un manipolo leggendario, né tanto meno il riflesso delle gesta eroiche di gente alla Randle/Jack Nicholson. Fondamentalmente la chiusura dei manicomi, che in un Paese di 58 milioni di abitanti ospitavano circa 90 mila persone, «fu resa possibile dal miracolo degli psicofarmaci», che intorno alla metà degli anni Cinquanta «venivano dati ai pazienti da una pentola, con il mestolo. Il manicomio diventò un luogo silenzioso, più tranquillo e dunque crebbe nella società e nella politica (una spinta importante la diedero i sindacati e i primi a manifestare furono a Genova) il movimento di chi chiedeva che i pazienti potessero stare fuori».
Certo oggi, ricorda Milone, in Italia per la salute mentale si spende meno di quando c’erano i manicomi (si è passati dal 5% al 3% della spesa sanitaria). Ma i malati restano: servono più fondi, cultura, servizi. A che cosa può servire allora rivedere un film come Qualcuno volò sul nido del cuculo? Per restare in tema, se si volesse capire di più attraverso un’opera di fiction quel «mondo interno» intorno al quale ruota il disagio psichiatrico, secondo Milone, bisognerebbe studiare semmai un altro Jack Nicholson immortale, quello psicotico e omicida di Shining («Wendy, tesoro, luce della mia vita») datato 1980. Tra cinque anni, per l’anniversario del mezzo secolo, prenotiamo Doc Paolo di Genova per un’altra visione da «piccola fine del mondo». Ma intanto, per il nostro bisogno di consolazione («Si esce dal film rinfrancati, non trova?», dice Milone), riflettiamo sull’avventura di Randle e Martini, Billy, Grande Capo e tutti gli altri «squilibrati» che valgono insieme 5 premi Oscar. Che personaggio, Grande Capo: Kesey nel libro racconta la storia proprio dal punto di vista del gigante soprannominato Chief, l’«indiano» che per autodifesa si finge sordo e muto, avulso da tutto. Nel film è la colonna a cui Randle/Jack strappa un sorriso e che gli procura un’estrema via d’uscita («Cosa ci facciamo qui io e te Grande Capo?»; «Non ti lascio qui così, ti porto con me»).
Di un film-culto, ciascuno ha le sue scene di culto preferite. La partita di basket tra pazienti e operatori, la telecronaca della finale di baseball, così immaginaria e così vera da irretire tutto il reparto dei «lunatici»: Randle si inventa ogni azione perché l’Infermiera Ratched non vuole accendere la televisione («Confax lancia, Richardson colpisce, il tiro è teso e fortissimo...»). E poi la meravigliosa fuga in barca, quando uno scatenato Nicholson con il cappellino e la ragazza al fianco porta tutti a pescare in mare. È dopo quella normalissima pazzia che il simposio dei medici stabilisce che McMurphy «è molto pericoloso».
Qualcuno volò non racconterà la psichiatria di ieri e di oggi. Sarà anche una favola. Ma sono passati cinquant’anni, i manicomi da noi non esistono più, tutti ci riempiamo la bocca della «dignità delle persone» che va preservata (ricordate il documentario Human forever?) a qualsiasi età e in ogni condizione. Eppure non è inutile o scontato, l’appello per una ventata di vita nelle strutture, «un po’ di giungla anche per me» come canta Paolo Conte. Nelle case, nei centri di cura di varia natura, al posto del filo spinato ci sono magari giardini bellissimi e spazi benessere, ma ogni tanto ci vorrebbero un Randle P. McMurphy, un Martini, un Grande Capo a scompigliare le carte dell’ordine costituito. E a creare legami, distribuirli con il mestolo più che con il contagocce, perché ciò che salva dalla tragedia è la commedia umana. A volte queste figure ci sono ma vengono considerate pericolose. Certo, non vengono punite con la lobotomia. Basta allontanarle, metterle in cattiva luce, trattarle come macchiette. A volte invece, mettono radici. Fanno comunità. Vogliono insieme la giungla e il pediluvio. Spostano macigni, o almeno ci provano. Come dice Nicholson nella favola del cuculo dopo l’ennesimo fallimento, but I tried.
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