La scriviamo senza sapere davvero cosa voglia dire
avere FAME.
Secondo il
Global Report on Food Crises 2025, 1,9
milioni di persone nel mondo si trovano in una situazione di fame catastrofica
(fase IPC 5). La malnutrizione, in particolare quella infantile, ha raggiunto
livelli estremamente elevati nella Striscia di Gaza, in Mali, Sudan e Yemen.
“A Gaza, i bambini, le famiglie, gli anziani,
sopravvissuti sono ridotti alla fame”,
ha detto ieri Papa Leone
XIV in Piazza San Pietro. Già, perché in quella striscia di terra oggi
ci si può considerare fortunati se si è affamati perché in qualche modo si è
sopravvissuti allo sterminio che dura ormai da 590 giorni.
Parlare di fame oggi significa guardare in faccia
una contraddizione storica: mai come ora l’umanità ha prodotto così tanto
cibo, e mai come oggi milioni di persone continuano a soffrirne la mancanza.
Ad esempio,
è in forte aumento la fame causata dagli
sfollamenti forzati, con circa 95 milioni di persone costrette a spostarsi
, tra
cui sfollati interni, richiedenti asilo e rifugiati
, che vivono in
paesi che affrontano crisi alimentari come il Congo, la Colombia, il Sudan e la
Siria, su un totale globale di 128 milioni di persone costrette a spostarsi.
Numeri che fanno impressione ma che forse rischiano di farci
perdere di vista la realtà, quella in cui
la fame non ha confini ma ha
dei volti ed è il sintomo visibile di squilibri e ingiustizie come le
guerre, le crisi climatiche, la povertà sistemica e l’iniqua distribuzione
delle risorse.
E se la fame diventa un’arma di guerra?
È questo che sta succedendo a Gaza, dove l'assedio e il
blocco degli aiuti umanitari hanno trasformato il bisogno di cibo in un destino
ineluttabile. Le immagini che ci raggiungono sulla condizione del popolo
palestinese non sono solo fotografie di una orribile crisi umanitaria, ma
specchi che ci restituiscono il volto più duro dell’indifferenza
internazionale.
Fame e morte ci scorrono davanti ogni giorno, in video,
foto, breaking news.
Le vediamo. Ma spesso non le guardiamo davvero. Scrolliamo,
skippiamo, sperando che ciò che abbiamo intravisto non sia mai successo. Non è
indifferenza, è difesa. Ma se ci fermiamo qui, rischiamo qualcosa di peggio:
l’assuefazione.
Le immagini più crude servono davvero a farci riflettere? È
necessario che l’orrore ci entri negli occhi attraverso lo schermo per farci
dire: “Sta succedendo qualcosa di ingiusto”? O forse, al
contrario, più vediamo, meno sentiamo?
Raccontare una guerra non è mai solo cronaca.
Soprattutto quando si parla di conflitti, la narrazione dei
media può influenzare l’opinione pubblica, la politica internazionale, le
reazioni delle istituzioni, il grado di mobilitazione o di silenzio del mondo.
Alcuni esempi?
- “Morti
a Gaza”, “Vittime civili”, notizie senza nomi e senza
storie che ci allontanano dal dolore e non sollecitano le corde della
nostra empatia.
- Gli
attacchi vengono descritti spesso in forma passiva, come se avvenissero da
soli e per casualità: “Crolla edificio”, “Colpito ospedale”,
in un’operazione di rimozione del soggetto e quindi della responsabilità
E se a questo aggiungiamo che oltre 200 giornalisti sono
morti dal 7 ottobre 2023, la narrazione dei fatti diventa ancora più
vulnerabile al filtro dei governi, alle versioni ufficiali e alle fonti
militari.
È nostro diritto e nostro dovere costruirci una nostra idea
di pace, di giustizia, di umanità.
Per questo dobbiamo alimentare il
nostro pensiero critico, alzare lo sguardo e accendere conversazioni sui
social, a tavola, in ufficio, a scuola.
I social, ad esempio, se usati bene, possono ancora fare la
differenza. Possono diventare spazi di confronto, di racconto, di
responsabilità.
Noi possiamo fare qualcosa di significativo, anche se
piccolo. Possiamo decidere di non passare oltre. Possiamo scegliere
parole che contano, che costruiscono.
Perché ogni parola – anche quella scritta in un commento o
condivisa in una storia – può essere un seme. E i semi, si sa, con il tempo
diventano futuro.
Sei un insegnante?
Domani a scuola parlane con la tua classe. Sarà una lezione
diversa, per ascoltare lo sguardo del mondo.
Sei un genitore?
A tavola, prova semplicemente a immaginare insieme a tuo
figlio o a tua figlia se il vostro frigo fosse vuoto e i supermercati senza
prodotti, cosa che sta davvero accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo.
Approfondimenti:
VIDEO - PiazzaPulita - Dentro la Striscia di Gaza: la quotidianità dei giovani
sotto assedio
ARTICOLO - Focus Junior - Israele e Palestina, come si è arrivati a questo punto?
Le radici del conflitto
ARTICOLO - Save The Children Come parlare a bambini e bambine della guerra?
LIBRO - Francesca Mannocchi - Sulla mia terra. Storie di israeliani e palestinesi
Un’intervista speciale approfondisce questo nostro focus
settimanale.
Abbiamo contattato Andrea Iacomini, portavoce UNICEF Italia,
e questo è il risultato della nostra chiacchierata:
Andrea, cosa vuol dire oggi per il mondo la parola
“fame”?
Oggi la parola fame assume molte declinazioni, più complesse
rispetto al passato. Non parliamo più solo della fame che nasce dalla mancanza
di cibo in sé. Oggi la fame è una privazione reale di diritti. È il volto di un
bambino malnutrito che non è semplicemente “un bambino che non mangia”,
ma un bambino che non riceve il giusto apporto nutrizionale per crescere, per
vivere.
Possiamo parlare di tre grandi “tipi” di fame:
- Quella legata a condizioni climatiche estreme, che stanno
colpendo in maniera devastante intere regioni del mondo;
- Quella generata dai conflitti;
- E poi c’è una terza forma, che definirei strategica.
Perché oggi, in alcune zone del mondo, la fame è diventata un’arma. Uno
strumento deliberato di pressione e sfinimento.
Lo vediamo, ad esempio, a Gaza, dove si sta vivendo una
carestia estrema. Non passano gli aiuti, sono bloccati. Le persone sopravvivono
mangiando radici, bevendo l’acqua del mare. È una realtà drammatica.
Cito Gaza, ma potrei citare anche altri contesti, dove la
fame viene usata come arma di conflitto, che si somma alla fame “strutturale”
che già conosciamo
Da comunicatori in che modo possiamo raccontare la fame
senza essere retorici?
Per evitare la retorica, dobbiamo partire dalle storie.
Raccontare la fame significa raccontare la vita concreta dei bambini che vivono
in condizioni estreme. Far toccare con mano ai lettori e alle lettrici, agli
spettatori cosa significa, nella realtà, non avere nulla.
Pensiamo, per esempio, alla rappresentazione del bambino
malnutrito: non possiamo più usare solo l’immagine stereotipata del corpo
scheletrico. Quel tipo di rappresentazione non è rispettosa. È più utile – e
potente – raccontare la sua storia, magari anche in positivo: spiegare che
grazie a un alimento terapeutico o al sostegno degli operatori sul campo, quel
bambino ha avuto una possibilità di tornare a vivere.
Perché un bambino gravemente malnutrito non è solo “magro”:
è un bambino che non ride, non riesce neanche a piangere, che perde le sue
funzioni vitali. È una condizione ancora troppo diffusa, che dobbiamo riuscire
a far comprendere, anche senza ricorrere a immagini scioccanti.
Raccontare la fame senza retorica, quindi, vuol dire questo:
dare volto, voce, storia e contesto a chi la vive ogni giorno. Solo così
possiamo sperare che le persone ascoltino, comprendano e agiscano.
Dall'esperienza del tuo lavoro di portavoce, ci sono
parole che più di altre possono avere un impatto nell'attivare in qualche modo
la mobilitazione pubblica e il pensiero critico a formare un pensiero critico
sul tema proprio delle emergenze internazionali?
Restiamo sull’attualità. Parliamo di oggi, non in generale.
Oggi, uno dei messaggi più urgenti da comunicare è questo:
il taglio dei fondi ai progetti che combattono fame, povertà, malattie,
discriminazioni e che garantiscono protezione e supporto psicologico ai
bambini, ha conseguenze gravissime e concrete.
Tagliare i fondi — come è avvenuto in questi mesi da parte
di governi, agenzie internazionali, ONG e anche degli Stati Uniti — significa
compromettere il futuro di milioni di bambini e bambine che già vivono in
condizioni difficilissime. Significa vanificare i risultati ottenuti finora,
frutto del lavoro eroico di tante donne e uomini che ogni giorno portano aiuti,
cure, istruzione, protezione.
Vi do un dato che nessuno ripete abbastanza: ogni anno nel
mondo si spendono 2.730 miliardi di dollari in armamenti. 85.000 dollari al
secondo.
Nel frattempo, i fondi destinati alla cooperazione
internazionale sono stati dimezzati con una rapidità mai vista prima.
E i numeri parlano chiaro:
- 500
milioni di bambini vivono in 59 Paesi coinvolti in conflitti armati.
- 1
miliardo di bambini vivono in 33 Paesi ad alto rischio climatico.
- La
malnutrizione acuta grave è in aumento in molte aree dell’Africa e
dell’Asia.
Questa è la fotografia del presente. Una delle crisi più
gravi dal 1946 per quanto riguarda l’infanzia.
Siamo dentro a un circolo vizioso che peggiora ogni giorno:
crisi climatica, guerre, tagli alla cooperazione, fondi che non arrivano più
dove servono. E tutto questo, se non viene raccontato bene, rischia di restare
invisibile. E di diventare normale.
Nel nostro piccolo, dai nostri luoghi di lavoro, dalle
nostre case e con le nostre comunità questo circolo vizioso in che modo
possiamo contribuire se a fermarlo, quantomeno ad attenuarlo?
In un’altra epoca, anche solo qualche anno fa, ti avrei
risposto così: non essere indifferenti. Perché l’indifferenza è un crimine
contro l’umanità. Cercare di essere partecipi, presenti, consapevoli di ciò che
ci accade intorno era già un primo passo.
Abbiamo pianto davanti ai bambini morti sulla spiaggia di
Cutro, ci siamo indignati pensando alle guerre da cui fuggivano. Ma oggi i
bambini che muoiono in mare, i civili sotto le bombe a Gaza o in Ucraina,
rischiano di diventare immagini che scorrono nel flusso delle notizie, fonte di
assuefazione.
Ecco, oggi non basta più indignarsi. Non basta più dirsi
addolorati, fare un post o pronunciare slogan di pace. L’indignazione,
purtroppo, è diventata un esercizio retorico. Non si nega a nessuno, ma non
cambia nulla.
Siamo in un tempo in cui non servono più solo grandi
manifestazioni di piazza, né appelli generici a una politica che spesso resta
sorda o a governi che stanno dimostrando ogni giorno di non essere all’altezza
delle sfide umanitarie in corso.
Oggi servono gesti concreti.
Cosa possiamo fare, allora?
Donare.
Non importa a chi — ma donare a chi lavora ogni giorno per portare aiuti: le
organizzazioni umanitarie, le ONG, le persone di buona volontà che, anche nei
contesti più difficili, cercano di fare la loro parte. Anche quando non
riescono ad arrivare fisicamente, continuano a esserci.
È questo il contributo più urgente che possiamo dare.
Essere
parte attiva, con i fatti.