giovedì, luglio 31, 2025

La cultura cambia il modo in cui vediamo il mondo

 
da L'Internazionale di Nala Rogers, Science, Stati Uniti

Uno studio rivela che gli abitanti dei paesi industrializzati e quelli dei villaggi africani interpretano in modo molto diverso le stesse illusioni ottiche, forse a causa delle differenze ambientali.

Gli indigeni himba della Namibia riescono a vedere oltre le illusioni ottiche che traggono in inganno gli statunitensi e i britannici. Anche quando non c’è un modo giusto o sbagliato d’interpretare un’immagine, spesso gli himba vedono qualcosa di molto diverso rispetto a chi vive nelle società industrializzate, suggerisce un nuovo studio in attesa di pubblicazione. 

Questo potrebbe significare che la visione è influenzata dall’ambiente circostante, una teoria antica ma controversa che contraddice il modo in cui di solito è studiata la percezione umana.

Per esempio, davanti a una griglia di linee dritte che formano sia rettangoli sia cerchi – un’illusione ottica nota come “illusione del forziere” – i volontari negli Stati Uniti e nel Regno Unito vedono quasi sempre prima i rettangoli e spesso faticano a vedere i cerchi. 

Per i ricercatori questo potrebbe essere dovuto al fatto che sono circondati da un’architettura squadrata. I villaggi tradizionali degli himba, invece, sono composti da capanne rotonde disposte intorno a un recinto per il bestiame circolare. Le persone che ci vivono vedono quasi sempre prima i cerchi, e circa la metà non vede i rettangoli neppure se sollecitata. 

“Mi sorprende che non vediate i cerchi”, ha detto Uapwanawa Muhenije, una himba di un villaggio della Namibia settentrionale intervistata su Zoom con l’aiuto di un interprete. “Mi chiedo come sia possibile”. Muhenije non è stata coinvolta nello studio perché il suo villaggio è meno isolato e, oltre alle capanne rotonde, ha anche strutture squadrate. Nell’illusione del forziere è in grado di vedere facilmente entrambe le forme. 

Sebbene la ricerca abbia riscontrato grosse differenze nel modo in cui le persone vedono quattro illusioni, “l’esperimento che colpisce di più è questo”, spiega Jules Davidoff, psicologo della University of London che non ha preso parte alla ricerca. “Ci sono altre sorprendenti differenze culturali nella percezione, ma quella emersa qui è davvero eccezionale”. 

I risultati, pubblicati a febbraio in forma di preprint sul sito PsyArXiv, sono stati da poco aggiornati.

Visione a strati

Gli scienziati documentano le differenze della percezione delle illusioni ottiche in tutto il mondo da più di un secolo, ma gli esempi passati si basavano su appena tre tipi elementari di illusione e i ricercatori non sono d’accordo sul loro significato. 

Alcuni hanno liquidato le differenze culturali ritenendole prodotti di funzioni cerebrali superiori come l’attenzione, stratificate su un sistema visivo più profondo e universale. Per altri le funzioni profonde sono influenzate anche dall’esperienza, mentre altri ancora rifiutano l’idea che la vista funzioni secondo una stratificazione gerarchica. 

E nonostante molti antropologi e psicologi abbiano accettato da tempo l’idea che cultura e ambiente intervengono sulla vista, l’importanza di questi due aspetti stenta a essere riconosciuta dagli studiosi della scienza della visione, che raramente coinvolgono nelle loro ricerche persone di altre culture, sostiene Joseph Henrich, esperto di evoluzione sociale di Harvard che non ha preso parte al nuovo studio (anche se tre degli autori lavoravano nel suo laboratorio). 

Ivan Kroupin e Michael Muthukrishna, psicologi della London school of economics, si sono addentrati in questo ambito controverso con sei illusioni, cinque delle quali non erano mai state usate in uno studio interculturale. La maggior parte delle immagini scelte non è influenzata dall’attenzione cosciente, per cui è più probabile che coinvolgano parti del sistema visivo spesso ritenute universali. 

Gli psicologi hanno mostrato le immagini a persone che vivono in tre realtà diverse: Stati Uniti e Regno Unito, che rappresentano gli ambienti occidentali industrializzati, i villaggi degli himba e una cittadina della Namibia. I partecipanti del primo gruppo hanno fornito le risposte tramite un sondaggio online. In Namibia, invece, Kroupin ha posto le domande di persona nel laboratorio che coordina con la coautrice Helen E. Davis, antropologa della Arizona state university. 

Convergenze parallele

In quattro delle sei illusioni ottiche mostrate gli himba hanno visto cose diversissime rispetto agli statunitensi e ai britannici, mentre gli abitanti della cittadina namibiana sono risultati una via di mezzo. 

In un’immagine, per esempio, c’erano delle linee ondulate che sembrano a zig zag, mentre in un’altra c’erano delle linee parallele che sembrano tangenti. La maggior parte degli abitanti dei villaggi ha visto entrambi i tipi di immagini come sono davvero, senza farsi trarre in inganno dal disegno e dalle ombreggiature che mandano fuori strada buona parte degli abitanti delle società industrializzate. 

Nell’illusione del forziere il 97 per cento dei partecipanti di Stati Uniti e Regno Unito ha visto prima i rettangoli, mentre il 96 per cento degli himba ha visto prima i cerchi. 

Secondo Davidoff lo studio non rivela in maniera diretta i meccanismi delle illusioni ottiche e come le differenze culturali incidano su quelle funzioni (che Kroupin si propone di approfondire in futuro insieme ai colleghi), ma la ricerca già ora evidenzia quanto sia importante includere nello studio dei meccanismi mentali elementi come la cultura e l’ambiente, dice Henrich. Altrimenti si rischia di confondere per tratti umani universali quelli che invece sono effetti collaterali della cultura dei ricercatori, una cultura poco comune in termini storici e globali. 

Muthukrishna aggiunge che pur essendo fondamentale capire cosa ha in comune l’umanità, anche le differenze contano. 

Lo studio “dimostra l’importanza della diversità”, afferma. “Se vuoi avere un quadro completo del mondo, devi includere anche chi vede dei cerchi dove gli altri vedono solo rettangoli”.

SOLUZIONE per gli occidentali:

adesso tornate a vedere la prima immagine...


mercoledì, luglio 30, 2025

URUGUAY: Formula per la felicità

 
da L'Internazionale, di Christoph Gurk, Süddeutsche Zeitung, Germania

Si pensa che gli abitanti dell’Uruguay vivano bene perché sono pochi. Ma le ragioni sono più profonde: è un paese progressista, laico, rispettoso del bene comune e delle istituzioni.

Non sono tempi facili, lo sa bene anche Raymond De Smedt. Il sogno americano è imploso; la terra promessa è lacerata da una terribile guerra; le democrazie degenerano in dittature; le nazioni ricche di risorse rischiano la bancarotta e in tanti sognano solo di andarsene da qualche altra parte. Ma non De  Smedt : lui vuole rimanere in Uruguay, “un paese straordinario”.

È mattina presto a Rocha, nell’est del paese. Fuori dalla finestra le nuvole autunnali incombono sul poggio su cui sorge la tenuta di De Smedt. Si chiama Estancia El Alamo, ha seimila ettari di boschi e prati e una casa padronale costruita nel 1860 con decorazioni in legno scuro e parquet che scricchiola a ogni passo. Nel camino crepita il fuoco e De Smedt ci è seduto accanto. Ha 86 anni, è nato in Belgio e ha vissuto e lavorato praticamente in tutto il mondo: in Sudamerica e a Singapore, in Cina e negli Stati Uniti, in Indonesia e in Russia. Ma una ventina d’anni fa ha scelto l’Uruguay come sua residenza definitiva. “Lo rifarei anche oggi”, dice.

L’Uruguay è stretto tra il Brasile e l’Argentina, due paesi che prendono il nome dalle ricchezze che c’erano un tempo sui loro territori o che le persone speravano di trovarci: il prezioso legno rosso di un albero locale in Brasile e l’argento in Argentina. L’Uruguay si chiama così dal fiume omonimo. Il nome ufficiale del paese è Repubblica orientale dell’Uruguay, più una descrizione geografica che un nome. 

Basterebbe questo per capire che nessuno qui si è mai sentito troppo importante. È vero che nel 1930 l’Uruguay ospitò e vinse i primi mondiali di calcio e che per un bel po’ fu considerato “la Svizzera del Sudamerica”. Ma è stato tanto tempo fa. Nel calcio la nazionale non è più una squadra da temere e anche dal punto di vista del benessere e della sicurezza la situazione non è idilliaca come una volta: nel 2024 ci sono stati 10,6 omicidi ogni centomila abitanti, il doppio degli Stati Uniti. E a Montevideo, la capitale, a volte si vedono intere famiglie dormire per strada.

Si potrebbe pensare che Raymond De Smedt si sia ingannato scegliendolo come sua residenza stabile. Ma non è l’unico a fare il tifo per l’Uruguay.

Mentalità diversa

Il paese ha dei problemi innegabili, come l’alto tasso di abbandono scolastico, la criminalità o la scarsa crescita demografica, ma ha anche dei lati sorprendentemente positivi. Il rapporto mondiale sulla felicità colloca l’Uruguay prima della Francia e del Brasile, a cui è subito dietro nelle statistiche per la solidità democratica. Nella lotta alla corruzione è perfino davanti alla Germania.

L’Uruguay ha il pil pro capite più alto del Sudamerica e il tasso di povertà più basso. L’economia cresce, le emissioni di anidride carbonica diminuiscono, e i populisti e gli estremisti di destra hanno un ruolo marginale nella società e nella politica. La sua, secondo il settimanale britannico The Economist è una “storia di successo in America Latina”; per il New York Times è un “miracolo silenzioso della democrazia”. Incuriositi, abbiamo voluto vedere cosa rende il paese migliore degli altri. Magari il resto del mondo ha qualcosa da imparare.

Quando si parla del successo dell’Uruguay, spesso si chiamano in causa le sue dimensioni e la scarsa densità demografica. In una superficie che è il doppio dell’Austria (poco più di 176mila chilometri quadrati) vivono meno persone che a Berlino: 3,5 milioni secondo l’ultimo censimento, a cui si aggiungono circa dodici milioni di bovini. Di questi, cinquemila appartengono a De Smedt. “Vieni, te li faccio vedere”, dice mettendosi il cappello e prendendo posto nel sedile posteriore dell’auto. Al volante c’è un suo dipendente. Il pick-up sobbalza lungo strade sterrate, tra fango e buche. Alcuni uccelli si alzano in volo, un nandù solleva curioso il lungo collo.

Il fatto che oggi allevi bovini, dice De Smedt, è una specie di ritorno alle origini. Un tempo, in Belgio, anche i suoi genitori avevano mucche e vitelli e vendevano la carne nella macelleria di famiglia. Da bambino doveva aiutarli, ma finì comunque le scuole, studiò geologia e poi prese una laurea in ingegneria.

Negli anni sessanta entrò nel settore petrolifero e agli inizi degli anni settanta il suo lavoro lo portò per la prima volta in Sudamerica, in Argentina. Ma anche in Uruguay. Si innamorò subito del paese, non perché aveva molto da offrire, ma per la ragione opposta: “Qui non c’è praticamente niente”, dice De Smedt. L’Uruguay ha poche ricchezze naturali e il suolo, rispetto a quello delle nazioni confinanti, è decisamente più povero. E Montevideo non ha un’offerta culturale paragonabile a quella di città come Buenos Aires, São Paulo o Rio de Janeiro. “Sono le persone a rendere il paese speciale”.


L’auto sobbalza sempre più forte, De Smedt deve aggrapparsi alla maniglia di sostegno. L’opinione per cui in Uruguay si sta bene perché è piccolo e poco popolato gli sembra una semplificazione. Anche altri paesi sono così. La sua unicità sta nella mentalità, afferma. Fare le cose a la uruguaya significa non correre, guardare ai risultati sul lungo periodo invece che ai guadagni immediati.

Basta pensare agli allevamenti: per un breve periodo all’inizio del novecento resero l’Uruguay uno dei paesi più ricchi del mondo e ancora oggi sono un settore abbastanza redditizio. Potrebbero far guadagnare di più, per esempio usando gli ormoni o gli antibiotici. Entrambe le cose però in Uruguay sono vietate già da quarant’anni. La maggior parte dei bovini bruca l’erba dei prati per tutta la vita senza toccare i mangimi confezionati e vive all’aperto, non nelle stalle. Non è il massimo se si punta a ingrassare rapidamente gli animali e a fare profitti, ma è molto meglio per il loro benessere e per la qualità della carne.

Con la sua fattoria De Smedt vuole fare un passo ulteriore. Scende dall’auto e si avvicina a un recinto. Dall’altra parte, due gauchos spingono una mandria di mucche con i loro vitelli verso un nuovo pascolo. Gli animali sono robusti e hanno una folta pelliccia scura. 

Spostandosi di pascolo in pascolo, dice De Smedt, l’erba ricresce nel modo migliore e assorbe la quantità massima di anidride carbonica. Si chiama allevamento a impatto zero e anche se per ora non è redditizio con il tempo lo diventerà: non richiede l’uso di fertilizzanti e pesticidi, dato che la rotazione migliora la qualità dei terreni. “In sostanza guardiamo crescere l’erba”, dice con piglio decisamente uruguaiano, anche se con un leggero accento straniero.

Viaggiando verso sud dalla sua fattoria incontriamo piccoli villaggi, case unifamiliari e strade costeggiate da alberi. Le persone si sistemano sul marciapiede con le sedie da campeggio, chiacchierano e bevono il mate.

Ormai anche gli uruguaiani fanno battute sulla loro presunta calma. Il paese sarebbe il miglior rifugio al mondo in caso di catastrofe, dicono: perfino l’apocalisse arriverebbe con una ventina d’anni di ritardo. Naturalmente anche lo scienziato Néstor Da Costa conosce queste battute. Le trova divertenti, ammette nella sua casa di Montevideo, ma dicono solo una mezza verità. 

Nel 2013 l’Uruguay è stato il primo paese al mondo a liberalizzare il consumo di cannabis. E un anno prima era stato il secondo paese del Sudamerica a depenalizzare l’aborto.

Una questione privata

La lista è lunga. Nel 1913 l’Uruguay introdusse il divorzio per volontà della donna e nel 1877 l’obbligo scolastico generale, quarant’anni prima della Germania. “In molti ambiti l’Uruguay è progressista”, dice Da Costa. Questo a sua volta ha a che vedere con un’altra peculiarità: la netta divisione tra stato e chiesa. Ufficialmente nel paese il Natale e la Pasqua non si celebrano: sono stati trasformati in “giornata della famiglia” e “settimana del turismo”. 

“Forse siamo lo stato più laico del mondo”, afferma.

È venerdì pomeriggio e Da Costa è rientrato a casa dall’università. Ha 64 anni, porta un gilet e gli occhiali, ed è uno dei sociologi della religione più importanti del paese. Ma “non siamo poi molti”, dice. 

Già bambino Da Costa si accorse che il suo paese era diverso dagli altri. Una volta una zia lo portò in viaggio in Argentina, dove la costituzione obbliga il governo a promuovere la fede cattolica. All’epoca, racconta, per le strade di Buenos Aires “le persone si facevano il segno della croce solo perché passavano davanti a una chiesa”. Le edicole esibivano riviste religiose. 

“È impensabile in Uruguay”, dice. Con più di mezzo miliardo di fedeli, di cui più di cento milioni solo in Brasile, il Sudamerica è considerato il continente cattolico per antonomasia. Ma non si hanno dati ufficiali sul numero di persone battezzate in Uruguay o su quello dei cattolici praticanti. “La fede è una questione privata”, dice Da Costa. Per questo da più di cent’anni i censimenti non fanno domande sull’appartenenza religiosa.

Ci sono delle spiegazioni storiche: la chiesa cattolica non si è mai davvero interessata all’Uruguay per via del numero ristretto di abitanti e delle scarse ricchezze naturali. Il clero a malapena reagì quando, all’inizio dell’ottocento, i figli delle famiglie più ricche tornarono dai loro viaggi in Francia importando le idee della rivoluzione: libertà, uguaglianza e fraternità, ma anche la ribellione verso la fede e la religione. All’inizio, racconta Da Costa, ci si limitava a prendersi gioco dei cattolici, per esempio con grigliate pubbliche durante il digiuno del venerdì santo organizzate “davanti alle chiese cattoliche”. Ma presto arrivarono le prime leggi e i divieti: nel 1859 i gesuiti furono espulsi dal paese e due anni dopo i cimiteri furono statalizzati. Dal 1917 la separazione tra stato e chiesa è stabilita dalla costituzione. Da allora una ventina di villaggi e città hanno cambiato il loro nome perché era legato al culto dei santi. Per esempio Santa Isabel, una località nel centro del paese, è diventata Paso de los Toros.

Le croci furono bandite dalle aule e l’ora di religione fu cancellata. Al suo posto, continua Da Costa, i bambini furono educati a venerare gli eroi nazionali, come José Artigas, un generale e politico considerato il padre dell’indipendenza. Anche Da Costa a scuola doveva cantare una canzone in suo onore. Si ricorda ancora il testo: “Padre nostro Artigas, signore della nostra terra”. Non è un caso che suoni come una preghiera: lo scopo era creare una religione civile, una religione dei cittadini che non contemplasse la fede in Dio ma nello stato e nelle sue istituzioni. 

Se altrove è stata la chiesa cattolica a occuparsi delle persone, in Uruguay ci ha pensato lo stato, garantendo l’istruzione, e costruendo ospedali e cimiteri pubblici. 

Ha funzionato? Le persone hanno davvero più fiducia nello stato? “Senza dubbio”, dice Da Costa. Negli anni novanta un’ondata di privatizzazioni caratterizzò le politiche di tutta l’America Latina e molte aziende statali furono vendute. Anche il governo di Montevideo pensava di fare qualcosa di simile, ma un referendum popolare si pronunciò contro quei piani: i cittadini preferivano lo stato ai privati.

La fiducia nelle istituzioni è grande, prosegue Da Costa, e anche nei politici. 

Il più rispettato è stato José Pepe Mujica, guerrigliero negli anni settanta, presidente dal 2010 al 2015, morto lo scorso maggio. Mujica donava gran parte del suo stipendio da presidente e invece di una limousine guidava un vecchio e malconcio maggiolino Volkswagen. A volte dava un passaggio agli autostoppisti.

Durante la dittatura militare in Uruguay, dal 1973 al 1985, Mujica rimase in prigione per più di un decennio, per alcuni anni in isolamento, con le formiche come unica compagnia. Eppure, quando fu eletto presidente non volle che i criminali della giunta militare fossero processati. Le associazioni per la difesa dei diritti umani lo criticarono, ma per Mujica la giustizia aveva anche “la puzza della vendetta”. Secondo lui, era più importante riuscire ad avvicinare gli avversari.

“Questo desiderio di consenso è molto tipico”, dice Da Costa. 

Consenso ampio

Ramón Méndez Galain va oltre: per lui il desiderio di unità è uno dei segreti del successo del paese.

Méndez ci riceve sulla porta, ha una barba grigia e indossa una vecchia maglietta. Stava lavorando in giardino, dice. Ci invita a entrare in un ambiente piccolo, che fa da soggiorno e da ufficio. Alla parete è appeso un arazzo con motivi indigeni e sulla scrivania ci sono volumi illustrati sulle piante e la storia dell’Uruguay.

Méndez si lascia cadere sul divano. È un fisico di 64 anni che ha passato la prima parte della sua vita professionale a fare ricerche sul big bang e sulle origini dell’universo. Oggi è più interessato al presente e al futuro che al passato: è una sorta di pioniere della transizione energetica dell’Uruguay. 

In appena quindici anni il paese si è convertito quasi integralmente alle fonti rinnovabili di energia, idrica, eolica, solare e biomasse. “Nel 2024 siamo arrivati al 99,1 per cento”, dice.

Anche altri paesi hanno un bilancio energetico simile, per esempio la Norvegia o il Nepal. Ma possono contare su enormi montagne e fiumi impetuosi da sbarrare. In Uruguay la vetta più alta raggiunge i 513 metri. E anche se alcune dighe hanno fornito a lungo energia, all’inizio degli anni duemila non bastavano più. 

L’economia era in piena espansione, il tasso di povertà stava calando e per soddisfare il fabbisogno energetico l’Uruguay doveva importare grandi quantità di petrolio e gas per le centrali elettriche. Tutto questo aveva un costo, così il governo si mise alla ricerca di soluzioni e finì per scegliere l’energia nucleare. “All’epoca mi chiesi se fosse davvero la strada migliore”, racconta Méndez. Cominciò a studiare i rapporti e a parlare con esperti, a fare i suoi calcoli. “Volevo fare la mia parte per il paese in quanto fisico”, dice.

Presto arrivò alla conclusione che l’opzione migliore non era il nucleare, ma le energie rinnovabili. I motivi? Costi minori, niente emissioni, più posti di lavoro e più indipendenza. Scrisse anche una sorta di piano d’azione per una possibile transizione energetica del paese e il documento finì sul tavolo del presidente.

“Siamo un paese piccolo”, dice Méndez alzando le spalle. Nel 2008 diventò ministro dell’energia e mantenne la carica anche quando nel 2009 José Pepe Mujica vinse le elezioni. Il nuovo presidente gli pose una condizione: prima di mettere in pratica la transizione energetica voleva raggiungere un consenso ampio che superasse le divisioni tra i partiti. Nacque così una commissione composta sia da persone del governo sia da politici dell’opposizione. “Abbiamo confrontato i numeri e cercato la soluzione migliore per l’Uruguay”, spiega Méndez. Alla fine tutti si sono trovati d’accordo sulle energie rinnovabili. 

In un angolo della stanza, davanti a uno scaffale, ci sono dei modelli di pale eoliche. Le stesse che, dice Méndez, sono state costruite in gran numero in tutto il paese, insieme agli impianti solari. Da parte della popolazione non c’è stata praticamente nessuna resistenza. Al contrario, “tutti erano d’accordo fin dall’inizio che fosse la cosa migliore per il paese”, dice il fisico.

Così in Uruguay sono arrivati 4,3 miliardi di euro di investimenti in progetti di transizione energetica e sono stati creati cinquantamila posti di lavoro. È ovvio che questi risultati non possono essere semplicemente riprodotti copiando le misure adottate in Uruguay, ma il paese sudamericano ha comunque una lezione da dare al mondo: “Senza consenso non si può fare nulla”. È quello che Méndez ripete sempre quando partecipa a conferenze e riunioni in giro per il mondo.

Sensibilità ecologista, democrazia stabile e vita rilassata: lo stile dell’Uruguay comincia lentamente a farsi notare. 

Una donna britannica che da anni lavora a Montevideo come consulente per l’immigrazione afferma che le richieste di accesso nel paese si sono quadruplicate, soprattutto dagli Stati Uniti. Anche le agenzie di traslochi parlano di dati simili. “È l’effetto Donald Trump”, dice. 

E poi c’è il fatto che l’Uruguay rende la vita facile agli immigrati: per ottenere un permesso di soggiorno stabile basta dimostrare di avere un reddito, un certificato di buona condotta, una residenza e alcune vaccinazioni. “Tutto qui”.

La donna ha solo un consiglio da dare a chi decide di stabilirsi in Uruguay: “Fate le cose con calma”. 

Si trovano bene soprattutto le persone che cercano una vita tranquilla. 

Raymond De Smedt non ha più bisogno di sentirselo dire. Il fuoco nel caminetto della sua fattoria è ormai spento, ma fuori, in terrazza, le braci del barbecue ardono ancora. Sul tavolo c’è un grande piatto di carne del suo allevamento.

De Smedt si è ritirato dalla gestione dell’azienda. Oggi sono le figlie a dirigere l’Estancia, ma da remoto: una vive in Paraguay e l’altra nei Paesi Bassi. De Smedt, invece, non riesce più a immaginare di vivere lontano dall’Uruguay. Poi ci saluta, è da poco passata l’una: è l’ora della siesta.




martedì, luglio 29, 2025

New York sogna una rivoluzione politica

da L'Internazionale di Bhaskar Sunkara

Il trionfo di Zohran Mamdani alle primarie democratiche per scegliere il candidato sindaco di New York è più di una semplice sorpresa elettorale. È una conferma del fatto che una politica progressista, se condotta con disciplina, visione ed energia, può riscuotere un consenso ampio, anche in una città nota per le sue strutture di potere ben consolidate.

Non sono state delle primarie normali. Andrew Cuomo, ex governatore la cui caduta in disgrazia sembrava irreparabile fino a pochi anni fa, era considerato di gran lunga il favorito. Sostenuto dai soldi delle multinazionali, dai super pac (i comitati d’azione politica, formalmente indipendenti dai candidati, che mobilitano fondi per le campagne elettorali) e da donatori miliardari come Michael Bloomberg e Bill Ackman, Cuomo puntava sull’inerzia istituzionale e sul sostegno dall’alto. Eppure la sera del 24 giugno è stato evidente che tutto questo non sarebbe bastato.

Mamdani, 33 anni, cresciuto nel Queens e deputato dell’assemblea dello stato di New York, ha condotto una campagna tenacemente disciplinata, costruita intorno al tema del costo della vita, concentrandosi su questioni fondamentali come la casa, i trasporti e l’assistenza all’infanzia. I ripetuti tentativi di ridurre Mamdani a un “socialista musulmano” con idee radicali, d’imporre una politica identitaria divisiva o di rendere le elezioni un referendum su Israele sono tutti falliti. Ma non è stato solo l’autocontrollo nella comunicazione a farlo vincere. 

Mamdani ha un talento politico legato a un carisma autentico. La sua proprietà di linguaggio, la chiarezza di intenti e la sua autenticità gli hanno permesso di parlare in modo convincente a elettori di estrazioni diverse. Non è stato l’ennesimo politico-attivista, si è dimostrato un leader naturale, una persona capace di comunicare verità morali senza suonare moralista. D’altro canto, il tentativo di Cuomo di reinventarsi politicamente era problematico fin dal principio.

La sua candidatura è stata percepita da molti come un colpo di mano, un progetto di riabilitazione invece che un serio impegno ad affrontare le sfide della città. Non si è preoccupato di confrontarsi seriamente con il sistema elettorale relativamente nuovo di New York, noto come ranked-choice voting (un meccanismo complesso in cui ogni elettore può scegliere fino a cinque candidati e metterli in ordine di preferenza), tendendo ostinatamente a isolarsi invece che a costruire coalizioni, anche con figure centriste.

La differenza negli stili delle due campagne è stata netta e illuminante. Quella di Mamdani è nata dal basso, trainata da volontari appassionati, tra cui anche giovani attivisti dei Socialisti democratici d’America (Dsa). È stata anche moderna e intelligente, consapevole che una fetta crescente dell’elettorato forma le proprie opinioni sui social network, e capace di trovare modi innovativi di comunicare le proposte politiche. Quasi un quarto degli elettori che si sono espressi con un voto anticipato in queste primarie era formato da persone che partecipavano per la prima volta alle elezioni di New York.

Tuttavia, dai risultati è chiaro che la sua base elettorale non si è di certo limitata agli elettori giovani e con un’istruzione universitaria, i più attivi nella sua campagna. Nello specifico, Mamdani ha vinto anche in quartieri come Bay Ridge, Bensonhurst, Dyker Heights, Sunset Park e Brighton Beach, tutte aree che alle presidenziali del novembre 2024 avevano votato a destra.

È stato premiato il suo sforzo costante di arrivare a ragazze e ragazzi, appartenenti alla classe lavoratrice, che si sentivano delusi dal Partito democratico. Il primo video diventato popolare di Mamdani in questa campagna è stato messo online a novembre del 2024, quando il candidato è andato a intervistare gli abitanti di New York che avevano votato per Trump a proposito delle loro frustrazioni riguardo al costo della vita. 

Di fronte a un pubblico scettico, Mamdani è stato perfino in grado di indicare il socialismo democratico come una politica universale invece che come un marchio d’identità di una nicchia di persone o un’ideologia pericolosa.

Il lavoro di costruzione della coalizione è stato determinante tanto quanto la fermezza politica. Fondamentale per il successo largo di Mamdani è stato il sostegno di figure progressiste come Brad Lander, revisore dei conti della città di New York. 

Lander ha fatto campagna elettorale per se stesso, presentandosi come la persona più adatta a ricoprire la carica di sindaco, ma ha accettato la natura del ranked-choice voting e l’imperativo di sconfiggere Cuomo, esprimendo il suo appoggio anche per Mamdani. Il sostegno di Lander ha contribuito a creare un fronte unito e coeso – sempre più raro nei litigiosi circoli progressisti – e si è dimostrato decisivo.

Gli elettori da parte loro hanno dimostrato di essere pronti al cambiamento. Si sono rifiutati di cedere al cinico allarmismo sulla presunta ondata di crimine e antisemitismo che una vittoria di Mamdani avrebbe inaugurato. Al contrario, hanno guardato realisticamente alle proprie vite, hanno valutato i fallimenti del Partito democratico e hanno scelto qualcosa d’inedito, nuovo e radicalmente diverso rispetto a un establish ment politico fallito.

Ma i risultati del 24 giugno portano con sé domande più profonde sul futuro. La vittoria di Mamdani a queste primarie, per quanto significativa, sarà messa alla prova alle elezioni di novembre: contro il sindaco Eric Adams e probabilmente di nuovo contro Cuomo, che potrebbe presentarsi da indipendente. Lo attende poi un test ancora più impegnativo: governare. I progressisti di tutti gli Stati Uniti hanno seguito da vicino le vicende di Brandon Johnson a Chicago, un altro promettente sindaco di sinistra, che è inciampato a causa di uno scontro con un’opposizione robusta, ma anche per i suoi fallimenti amministrativi. 

Mamdani dovrà superare meglio gli ostacoli, se sarà eletto.

I precedenti storici potrebbero offrire qualche rassicurazione a quelli che si augurano l’affermazione del favorito alla carica di sindaco. Il successo del socialismo in diversi comuni degli Stati Uniti – in città come Milwaukee con i cosiddetti socialisti delle fognature, e negli anni ottanta a Burlington con Bernie Sanders – è un esempio concreto di amministrazioni socialiste caratterizzate da competenza, efficienza e popolarità. L’eredità di Sanders a Burlington, soprattutto, rappresenta un modello che Mamdani potrebbe seguire: una gestione pragmatica ma fondata su princìpi profondi che costruisce gradualmente la propria legittimità tra gli scettici e gli oppositori.

I sindaci di New York sono tradizionalmente considerati persone che vengono dal nulla e finiscono nel nulla, politicamente parlando. Mamdani, però, potrebbe rompere questo schema seguendo la traiettoria di Sanders: da un’efficace leadership locale fino a diventare una voce della politica nazionale. Tuttavia, per vincere Mamdani deve fidarsi del proprio giudizio, che si è già dimostrato acuto e strategicamente efficace. Deve proteggere la sua indipendenza da due strutture di potere della città: quella delle grandi aziende, che lo ha contrastato a ogni occasione, e quella dell’establishment progressista guidato dalle Ong, il cui istinto politico si è dimostrato fallimentare alle ultime tornate elettorali.

Il programma di Mamdani, che coniuga “un’agenda per l’abbondanza”, incentrata sulla crescita dell’offerta di beni e servizi, con rivendicazioni per una redistribuzione giusta delle risorse e vasti investimenti nel settore pubblico, propone esattamente il modello di amministrazione socialdemocratica di cui New York ha disperatamente bisogno. Non c’è nulla di radicale in queste istanze. Piuttosto, la vera radicalità sta nell’entusiasmo suscitato tra gli elettori, compresi molti in precedenza del tutto disinteressati alla politica locale.

Il 24 giugno Mamdani ha portato a casa una grande vittoria nella città più grande degli Stati Uniti. Ma dobbiamo essere lucidi sulle sfide che lo aspettano. 

Le vittorie elettorali sono rilevanti solo se si traducono in miglioramenti concreti nella vita delle persone, e lo slancio politico può dissolversi rapidamente se l’azione amministrativa non è all’altezza delle aspettative.

Mamdani ha di fronte a sé una responsabilità enorme, non solo nei confronti del suo elettorato locale, ma anche di un movimento progressista più grande che lo osserva con attenzione da ogni parte del paese, e del mondo.

BHASKAR SUNKARA è presidente della rivista statunitense The Nation. Ha fondato il trimestrale Jacobin. Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.


lunedì, luglio 28, 2025

SALUTE: Dopo mangiato non si fa il bagno. Vero o Falso'

da Internazionale 27 giugno 2025 - Washington Post

Falso. La famosa raccomandazione, rivolta soprattutto ai bambini, di aspettare una o due ore prima di fare il bagno dopo aver mangiato perché si rischia un malore è un mito, affermano gli esperti.
 
Non ci sono prove che ci sia un rischio di annegamento più alto, neanche per chi pratica nuoto agonistico, afferma Chris Whipple, infermiere del consiglio scientifico della Croce rossa americana. Secondo alcune teorie, quando si mangia il sangue affluisce al tratto gastrointestinale per favorire la metabolizzazione del cibo, e questo afflusso causerebbe crampi muscolari che rendono difficile nuotare.

Oppure si pensa che un’attività fisica come il nuoto potrebbe deviare il sangue dall’apparato digerente ai muscoli, causando nausea e vomito. “Ma la quantità di sangue deviata è minima”, afferma Michael Levine, docente di medicina all’università della California a Los Angeles. Ecco perché il rischio di incidenti legati al mangiare prima di fare il bagno “è praticamente nullo”, conclude. 

Non ci sono in questo senso raccomandazioni delle istituzioni come la Croce rossa o l’Organizzazione mondiale della sanità, però gli esperti consigliano di mantenersi idratati, fare attenzione ai colpi di calore quando si sta sotto il sole a lungo ed evitare di bere alcolici. 

domenica, luglio 27, 2025

Come ci influenzano i ricordi da libri, film e videogame

 

di Danilo di Didoro dal Corriere della Sera 


La memoria può cadere in trappola senza accorgersene e scambiare per un ricordo una scena vista in un film, un videogioco, e anche solo letta in un libro. E questi ricordi, per così dire accessori, possono entrare in processi cognitivi che orientano scelte personali. 

Infatti, la memoria degli eventi della propria vita, una sorta di filo rosso che lega il passato al presente, è uno degli elementi che contribuiscono a definire chi siamo e chi cerchiamo di diventare. Quel film o quel video che abbiamo visto e quel libro che ci sta appassionando entrano quindi nelle nostre vite forse più di quanto crediamo. Lo indica una ricerca realizzata da Osman Görkem Çetin e Sami Gülgöz del Department of Psychology della Koç University di Istanbul, pubblicata sulla rivista Memory

«In particolare, i risultati della nostra ricerca mostrano che film e videogame sono ricordati con una vividezza visiva e uditiva superiore a quella dei libri e paragonabile a quella dei ricordi della vita reale» dice Osman Görkem Çetin.

La differenza dipende dal fatto che mentre film e video mostrano direttamente le immagini, quando si legge un racconto la mente deve generarle per proprio conto, quindi non possono avere vividezza e dettagli sensoriali altrettanto marcati. 

«I ricordi provenienti dai videogiochi, rispetto a quelli generati da libri e film hanno indici di affidabilità più elevati riguardo al fatto che l’evento sia realmente accaduto, e anche maggiore accuratezza dei dettagli. Si collocano quindi quasi a livello dei ricordi della vita reale. Il motivo di questa veridicità dei videogame può essere attribuito al livello di coinvolgimento della cosiddetta agency, (in italiano “sensazione di controllo sulle proprie azioni”). 

Quando ci riferiamo a un videogame di solito usiamo il pronome “Io” per descrivere il personaggio che sta giocando, mentre quando ci riferiamo a film o libri descriviamo i personaggi con il loro nome. Inoltre i videogiochi prevedono azioni attivate dal giocatore, le cui scelte possono influenzare gli eventi. I ricordi generati da racconti letti sono in genere più bilanciati per quanto riguarda il punto di vista, che per i film tende a essere in terza persona».

Le memorie generate dai videogame mancano di duratura intensità emozionale per la scarsa coerenza narrativa

La ricerca è stata realizzata coinvolgendo quasi trecento volontari ai quali è stato chiesto di scrivere un testo nel quale ricordavano un evento emozionale delle loro vite, impossibile da dimenticare, e un altro testo nel quale ricordavano invece un evento proveniente da un libro, un film o un videogame.

«Successivamente è stato loro chiesto di valutare i ricordi evocati a seconda di intensità emotiva, vividezza visiva, impatto sulle decisioni future, fiducia riguardo ai dettagli del ricordo e di indicare quale fosse il punto di vista attraverso il quale si rappresentavano quel ricordo» dice ancora Osman Görkem Çetin. 

«Abbiamo anche raccolto informazioni sull’atteggiamento dei partecipanti rispetto alla loro tendenza a evadere dalla realtà, ad attribuire realismo alle rappresentazioni mentali, alla frequenza con la quale usavano videogiochi, vedevano film o leggevano libri».

Attraverso questa metodologia di valutazione, i ricercatori hanno analizzato l’intensità emotiva dei vari tipi di ricordi generati dalla vita reale e dalle esperienze di fiction.

«Abbiamo misurato sia l’intensità emotiva riferita al momento in cui l’evento ricordato stava avvenendo, sia quella rilevata nel momento in cui l’evento veniva ricordato

In entrambi i casi, com’era da aspettarsi, i ricordi della vita reale mostravano un’intensità superiore a quella dei vari tipi di fiction. 

Nessuna differenza è stata rilevata nell’intensità emotiva generata al momento dell’evento dalle varie forme di fiction esplorate. 

Invece l’intensità emotiva rilevata nel momento in cui l’evento veniva ricordato risultava inferiore per i ricordi provenienti dai videogame rispetto a quella riferita a libri e film. 

Un dato che indica come i ricordi generati dai videogame manchino di duratura intensità emozionale, a causa di una loro carenza di coerenza narrativa, motivata anche dal fatto che l’emozione dei videogame deriva principalmente dal raggiungimento degli obiettivi e dalla competizione».

sabato, luglio 26, 2025

Ricette di Economia: Perchè per le donne è ancora difficile investire?

Delle donne si è sempre detto, con una punta di tenerezza, che sono avverse al rischio. 

Che non investono e, quando lo fanno, sono prudenti ed evitano rischi non necessari. Probabilmente a voi, così come a me, questo sembrerà un sintomo di intelligenza. 

Ma nel corso di questi ultimi 30 anni, la globalizzazione ha diffuso un modello economico fondato sulla gratificazione immediata, sull’assenza di responsabilità per le conseguenze delle nostre scelte di (iper)consumo e sull’ottenimento dei profitti più elevati possibili, anche a fronte di rischi molto alti. 

Va da sé che, in una cornice come questa, la cura, l’attenzione, la cautela con cui spesso le donne abitano il mondo (sì: anche quello della finanza) rischiano di non essere benvenute. Ma non è solo un tema di comportamento. 

Secondo Boston Consulting Group, il 70% della ricchezza mondiale è ancora in mano agli uomini. 

Le donne investono meno anche perché, semplicemente, possiedono meno denaro. Insomma, è più facile rischiare, quando si hanno le spalle coperte. 

Chi può fare affidamento su un reddito più elevato può permettersi (eventualmente) di sbagliare. Invece, chi ha pochi soldi è tenuto a gestirli con più parsimonia, con più attenzione. 

Non a caso, le donne che investono, in Italia, sono la metà rispetto agli uomini. 

Cosa succede, però, quando le donne investono? Cosa cambia, quando decidono di potersi permettere il rischio che sempre, in varia misura, si associa agli investimenti? 

Quando investono, le donne spesso ottengono risultati migliori degli uomini. 

Nel 2024, le donne in Europa hanno investito meglio degli uomini anche sulla piattaforma di Revolut: in media, i loro rendimenti sono stati più alti del 2,6%. Le donne hanno ottenuto risultati migliori in tutte le fasce d’età fino ai 64 anni, ma il distacco più netto si è visto tra le giovani donne dai 25 ai 34 anni, che hanno superato gli uomini addirittura del 3,2%. 

Non è tutto: nei momenti di forte calo dei mercati, le donne hanno circa il 25% di probabilità in meno di vendere in preda al panico o di cambiare strategia, evitando così mosse impulsive che raramente premiano. 

In generale, risultano più disciplinate e coerenti con i propri obiettivi di lungo termine. E le buone notizie non finiscono qui. Qualche anno fa, John Coates, della Cambridge University, ha dimostrato che dei livelli di testosterone più elevati possono condurre a decisioni finanziarie e di investimento irrazionali. 

Lo studioso parla di Winner effect: quando i trader, per lo più giovani uomini, ottengono profitti dai propri investimenti, i loro livelli di testosterone aumentano, generando una spirale in cui la loro crescente sicurezza alimenta una propensione al rischio sempre più elevata. 

Quale sarebbe la buona notizia per l’universo femminile? 

Che in media, le donne producono solo il 10% del testosterone prodotto dagli uomini. Anche negli investimenti, c’è spazio per le donne. E in quello spazio, forse, c’è un modo diverso di pensare il denaro.


venerdì, luglio 25, 2025

Milano, tasse ai minimi per i milionari e case a prezzi record: il 40% delle vendite sopra il milione e il «modello Ronaldo» di Federico Fubini

 


Nel capoluogo lombardo il 40% delle vendite di alloggi sopra il milione. Il «modello Ronaldo»: avrebbe dovuto al fisco italiano più di 43 milioni, se l’è cavata con 100 mila euro.

L’Italia è tornata a crescere dello zero-virgola, come ha fatto per gran parte di questo secolo. Eppure c’è un angolo del Paese che viaggia ad una velocità diversa: il prezzo medio di vendita degli immobili di lusso nelle aree più pregiate di Milano fra il 2021 e il 2024 è salito del 57%, a quasi 27 mila euro a metro quadro

Nella zona del quadrilatero della moda i prezzi sono saliti del 54% fino a un valore a metro quadro, 39 mila euro, sette volte più grande di quello medio degli immobili a Milano e diciotto volte più di quello medio del Paese (secondo il sito Mercato immobiliare). Forse è il portato inevitabile della globalizzazione, con i suoi paradossi: il risparmio si accumula soprattutto nella parte in assoluto più abbiente della società, non fosse che per i rendimenti superiori dei patrimoni quando questi sono grandi, fino a generare un’inflazione specifica dei beni dei ricchi.

Secondo Marco Tirelli, un importante intermediario di case di lusso a Milano — a cui si deve la stima sulla crescita di quello specifico settore — dal 2015 in città l’inflazione del mattone di livello medio-basso è stata del 7%, ma su quello medio-alto del 20%. Anche per la buona borghesia dunque la progressione è di poco più di un terzo, rispetto alla fascia altissima. Le distanze di allargano ovunque, in mille modi.

Eppure nella capitale economica d’Italia, ora che il suo modello immobiliare è all’attenzione della magistratura, queste distanze pongono domande anche più serie. Perché è noto che nella globalizzazione vincono i poli urbani che attraggono conoscenza, talenti, investitori, capitali. Paul Krugman, l’economista premio Nobel, lo chiama «effetto di agglomerazione». Succede quando una città assorbe cervelli e risorse verso di sé dal resto del Paese o del mondo: San Francisco per il digitale, Londra per la finanza o il biotech, Milano per l’Italia. Ma non solo per essa. Perché la gara della globalizzazione — è l’assioma da inizio secolo — la si vince conquistando le persone che più la incarnano.

Solo in Europa esistono una trentina di schemi per attrarre ricchi dal resto del mondo. E dal 2017, dapprima innescato dal governo di Matteo Renzi, anche l’Italia ha il suo: una «tassa piatta» a 100 mila euro per un quindicennio per chi ha aderito fino all’anno scorso, a 200 mila euro da quest’anno, su tutti i redditi esteri di contribuenti che prendono residenza in Italia. Basta essere stati fiscalmente fuori dai confini per nove degli ultimi dieci anni. Ovvio che servono redditi sostanziali all’estero, per trovare l’idea interessante. 

Quando si è trasferito alla Juventus nel 2018, Cristiano Ronaldo aveva un centinaio di milioni di redditi esteri grazie alle sponsorizzazioni. Avrebbe dovuto lasciare all’erario italiano più di 43 milioni (o una quindicina di milioni nei regimi più favorevoli d’Europa). Invece se l’è cavata con 100 mila euro, un’aliquota effettiva dello 0,1%. Non solo questo: lo stesso sistema esenta i «neo-residenti» da qualunque tassa su donazioni e successioni, dal prelievo fisso di 0,2% sugli investimenti esteri di portafoglio e dall’1% sugli investimenti esteri in immobili.

Vallo a spiegare ai milioni di italiani del ceto medio e medio-basso che stanno pagando 25 miliardi di tasse in più perché il (parziale) adeguamento di buste paga e pensioni all’inflazione li fa scivolare verso aliquote Irpef più alte, mentre il loro potere d’acquisto cala. 

Vai a capire, soprattutto, che effetto fa questo spicchio di paradiso fiscale all’italiana sul mercato immobiliare di una Milano intaccata dalle inchieste.

C’entra qualcosa il «sistema-Ronaldo» con quel più 57% sugli immobili di primissima fascia, ma soprattutto con il più 13% dei prezzi medi milanesi dal 2015 che pure taglia fuori troppe famiglie che lavorano? 

Il sistema dei «neo-residenti» dal 2018 al 2023 ha attratto nel Paese almeno 4.500 soggetti ad altissimo reddito — se si elaborano i dati della Corte dei conti e del dipartimento delle Finanze — e Tirelli, l’agente immobiliare per il settore di lusso, stima che circa due terzi si siano stabiliti proprio a Milano. Affittano o comprano. 

Di certo circa il 40% delle transazioni su case dal prezzo sopra il milione di euro nel Paese avviene proprio nella sua città più dinamica.

Secondo Tirelli, l’impatto al rialzo del paradiso fiscale all’italiana si avverte solo sul segmento immobiliare più alto, dominato per tre quarti dai nuovi ricchi ospiti della città. Altri non sono così sicuri che si fermi lì. Alcuni sospettano che l’effetto psicologico trascini al rialzo, per emulazione, buona parte delle quotazioni. Ingrid Hallberg, un’altra mediatrice di case di pregio, nota che gli afflussi dall’estero fanno risaltare ancora di più la scarsità di un’offerta di mattone che non riesce a tenere dietro alla domanda.

Perché in realtà il regime di favore fiscale non vale solo per i ricchi. 

Introdotta sempre da Renzi, ma mantenuto da tutti i governi (con variazioni), c’è anche l’esenzione del 70-50% dell’imponibile per chi era rimasto fuori dall’Italia per due o fino a quattro anni. Sono 128 mila soggetti con redditi medi di 112 mila euro nel 2023, secondo il dipartimento delle Finanze, anch’essi concentrati spesso su Milano. E investono in mattone ciò che risparmiano in tasse, tagliando fuori chi sulle tasse non può risparmiare.

È la lotta per salvare la demografia di un Paese che in dieci anni ha perso due milioni di abitanti, chiaro. 

Ma non era più sano fare invece qualcosa di più perché circa duecentomila giovani non debbano lasciare il Paese a causa di salari e mansioni di lavoro umilianti?

giovedì, luglio 24, 2025

L’era digitale richiede responsabilità

di Luciano Floridi da "La Lettura" del Corriere della Sera del 20 Luglio 2025

In molti contesti si parla ancora di «tecnologie emergenti» e «nuovi media», come se il digitale fosse una novità. Ma la rivoluzione digitale è già avvenuta da decenni: è tempo di farla evolvere nella direzione che preferiamo. 

Siamo di fronte a un momento senza precedenti: a differenza delle rivoluzioni agricola e industriale, che richiesero millenni la prima e secoli la seconda per dispiegarsi, la trasformazione digitale sta avvenendo in pochi decenni. 

Lo stordimento è comprensibile, ma trattarla ancora come un’innovazione è un errore che rischia di diventare alibi per l’inazione. È oggi che plasmiamo le fondamenta ancora malleabili della società digitale futura. Dalla crisi nei rapporti internazionali ai cambiamenti climatici, dalla non equità economica alle migrazioni, dalle guerre alla violenza sulle minoranze, le soluzioni partono dalla politica e quindi anche dalla creazione di una società digitale migliore, trasformando il possibile in preferibile. Se non interveniamo ora, gli errori diventeranno sempre più difficili da correggere, e le opportunità mancate sempre più irrecuperabili.

Data questa premessa storica — la rivoluzione digitale è ormai un fatto storico in corso da decenni — e morale — dobbiamo gestirla ora e al meglio, foss’altro perché oggi è più facile che domani — è utile analizzare almeno tre architetture principali e quattro macro-tendenze che stanno definendo la struttura e il funzionamento delle società digitali, per comprenderne la natura profonda e dove si può intervenire.

La prima architettura è fattuale. I filosofi la chiamerebbero ontologica. La realtà diventa sempre più anche digitale ma soprattutto progettata per il digitale (digital-friendly): gli oggetti, i servizi, i processi, le infrastrutture, persino le persone e le loro interazioni vengono modellate e gestite per interagire fluidamente con sistemi digitali. Si pensi al mondo della formazione, del lavoro, dell’intrattenimento, oppure alla domotica, alle smart city, alle automobili a guida autonoma: lo spazio fisico diventa un ambiente ottimizzato per il digitale che non si aggiunge semplicemente a ciò che già esiste, ma ne trasforma la natura intrinseca. Le città sono piene di telecamere e sensori, trasformandosi in smart city che respirano dati. I nostri corpi sono interfacce e fonti di dati, costantemente avvolti da dispositivi che tracciano parametri vitali. I documenti nascono e muoiono in formato elettronico e vengono stampati su carta solo occasionalmente, per necessità specifiche o abitudine. Persino il denaro ha perso molta della sua fisicità: oggi è essenzialmente un flusso di informazioni che viaggia tra server e app

In questo contesto, termini come «infosfera» e «onlife», che ho introdotto molti anni fa, cercano di fornire il vocabolario adeguato a cogliere i nuovi fenomeni di un ambiente sempre più analogico e digitale al contempo, e una vita in cui essere o meno connessi non è più una reale opzione.

La seconda architettura è «agentica». In un mondo sempre più digitale, assistiamo da anni allo sviluppo di nuove forme di agency («agenzia» non si dice in italiano, e «capacità di azione» non rende bene l’idea), soprattutto con l’Intelligenza artificiale e la robotica, che trasformano radicalmente il concetto stesso di lavoro, produzione e decisione. 

L’IA guida veicoli autonomi, diagnostica malattie, crea contenuti di ogni genere, o decide chi riceve un prestito bancario. Amazon sta per impiegare più robot (oltre un milione) che esseri umani nei suoi magazzini. Queste tecnologie operano autonomamente, come agenti sociali ed economici. Un algoritmo di trading può comprare e vendere azioni in microsecondi, eseguendo migliaia di operazioni senza alcun intervento manuale. I chatbot e gli assistenti virtuali sono sempre più in grado di sostenere conversazioni complesse. Ci sembrano umani. Un sistema di raccomandazione online può influenzare le scelte di milioni di persone. 

Questa agency artificiale è priva di qualsiasi intelligenza — nel senso comune del termine, il resto è un dibattito semantico —, comprensione, interessi o intenzionalità. Purtroppo, il marketing delle grandi aziende che la promuovono, e la fede quasi religiosa di quelli che la sviluppano rendono necessaria questa chiarificazione. Ma — e questa è sì la cosa straordinaria — stiamo scoprendo che un’infinità di compiti che credevamo richiedessero intelligenza per essere svolti, di fatto possono essere affidati a sistemi statistici, se si hanno sufficienti dati, algoritmi, dollari, ed energia elettrica. 

Così l’IA sarà sempre più una forza lavoro indispensabile, distribuita ovunque si possa fare algoritmicamente quello che avrebbe richiesto un po’ d’intelligenza a un essere umano. Lo sviluppo di questa architettura agentica è reso possibile dalla digitalizzazione del mondo vista sopra. Agenti a intelligenza zero sarebbero un disastro in un mondo del tutto analogico, ma funzionano sempre meglio in un contesto sempre più digitale, disegnato per loro. Sono come pesci in un mare in cui noi, esseri analogici, possiamo solo immergerci grazie ad altre tecnologie di sostegno. Il QR code del menu di un ristorante non è scritto per essere letto da noi. 

Per questo, l’architettura agentica sta già rivoluzionando il mercato del lavoro, che soffre di disoccupazione non per mancanza di domanda — i posti di lavoro sono disponibili — ma per il mancato allineamento tra la domanda e l’offerta. Non si tratta quindi di adottare misure keynesiane per incrementare la domanda, ma di investire in formazione per migliorare l’allineamento. 

E infine, lo sviluppo e la diffusione dell’IA pone enormi interrogativi etici — dalla discriminazione all’opacità delle decisioni — un tema sempre più esplorato, ma che resta largamente irrisolto. Si può partire da quest’ultimo punto per introdurre 

La terza architettura, che è etico-giuridica e riguarda la governance della società digitale.

La società digitale necessita di nuove regole per gestire e indirizzare le trasformazioni in corso. 

L’AI Act europeo, gli Executive Order statunitensi, la Convenzione del Consiglio d’Europa sono alcuni degli esempi concreti più noti di come si stia cercando di regolamentare la complessità digitale, proteggendo al contempo i valori umani fondamentali e l’ambiente naturale. Non a caso, a livello globale si stanno moltiplicando gli sforzi per colmare questa lacuna. Negli Stati Uniti, pur con un approccio culturalmente diverso, più orientato all’innovazione e alla sicurezza nazionale, proprio in questo periodo il Senato ha fermato il tentativo dell’amministrazione Trump di impedire che i singoli Stati possano legiferare sull’IA e i suoi vari aspetti. 

È un fenomeno meno visibile dall’Europa ma macroscopico. Ne abbiamo discusso recentemente con i senatori dei vari Stati coinvolti ad un convegno che ho organizzato a Yale. Ma la sfida normativa va oltre gli aspetti legislativi; è una sfida intellettuale (direi filosofica, se il termine non fosse diventato dispregiativo) perché richiede il ripensamento e il rinnovamento di categorie che hanno fatto un buon lavoro in epoca moderna ma non sono più in grado di coprire il nostro deficit concettuale. 

Per esempio, in un mondo di sensori pervasivi, riconoscimento facciale e raccolta continua e capillare di dati, con sistemi IA che ci conoscono meglio di altre persone, il concetto tradizionale di privacy inteso come il diritto a essere lasciati in pace non è errato ma obsoleto. 

O si pensi al concetto di colpa: la catena della responsabilità nelle decisioni algoritmiche è opaca e sempre più difficile da risolvere. Infine, la nostra identità digitale, composta dai nostri profili social, dai dati di navigazione, dalle nostre impronte online, è ormai tanto reale quanto la nostra identità fisica. 

In questi come in molti altri casi, non basta «allungare la coperta moderna» per coprire i nuovi fenomeni etici e giuridici: c’è bisogno di innovazioni concettuali, nuove o rinnovate idee all’altezza delle sfide e dei problemi che dobbiamo affrontare. C’è bisogno di un design concettuale di alta qualità, partendo dal passato, ma non fermandosi a esso.

All’interno di queste tre architetture evolutive, emergono quattro macro-tendenze che ridefiniscono il presente e plasmeranno il futuro della società digitale.

  • La prima è l’eclisse dell’analogico, inteso come la realtà fisica, tangibile, e le esperienze umane non mediabili digitalmente. I modelli digitali, per quanto dettagliati, sono sempre astrazioni parziali della realtà. Un medico può conoscere perfettamente la cartella clinica di un paziente — ma si potrebbe usare l’esempio del profilo digitale di una studentessa, di un lavoratore o di una cliente — senza comprenderne la storia personale o il contesto socio-economico. Come ricordava Norbert Wiener, «il miglior modello di un gatto è un gatto, possibilmente lo stesso gatto». Confondere la mappa digitale con il territorio analogico significa perdere dimensioni essenziali dell’esperienza umana e quindi correre più rischi, in termini di errori e mancate opportunità.
  • La seconda macro-tendenza riguarda l’agency delegata alle macchine, che diventerà sempre di più una commodity (altra parola inglese che si traduce male) diffusa, accessibile, flessibile, a basso costo, un po’ come l’elettricità un secolo fa. A questo proposito vale la pena ricordare che l’elettricità impiegò circa mezzo secolo per passare da tecnologia sperimentale a infrastruttura urbana essenziale, tra il 1880 e il 1930, con le aree rurali in molti Paesi sviluppati non completamente elettrificate fino agli anni Cinquanta, e alcune regioni in via di sviluppo molto più tardi. Non aspettiamoci che l’IA impieghi solo mesi, ci vorrà ancora qualche anno. È difficile stimare quante persone usino una qualche forma di IA, e le aziende tendono a fornire dati ottimistici, ma si parla di circa 1,7-1,8 miliardi negli ultimi sei mesi, con 500-600 milioni di persone che la usano quotidianamente. Siamo ancora lontani dai 5,8 miliardi di utenti di telefoni cellulari, ma non troppo. Quando ogni telefono includerà IA app, l’accesso sarà sempre più diffuso e ordinario — democratizzato, dicono gli informatici, con un termine fuorviante — e la vera questione sarà come saperla usare e per quali scopi. Questa «democratizzazione» dell’agency artificiale può aprire opportunità straordinarie, accelerando l’innovazione, aumentando la produttività e permettendo la creazione di nuovi servizi, come la generazione di contenuti on-demand. Si immagini poter vedere un film creato per noi sulla base di poche righe di descrizione (prompt).
  • La terza macro-tendenza, solo apparentemente paradossale, è che in un mondo sempre più digitale il controllo delle infrastrutture fisiche, cioè dell’analogico, risulta ancora più decisivo. Anche in questo caso, qualche esempio è sufficiente. L’infrastruttura digitale dipende criticamente da materie prime strategiche: elementi come neodimio (una delle cosiddette «terre rare», fondamentale per la produzione di magneti), tantalio, cobalto e litio sono indispensabili per smartphone, server e componenti elettronici avanzati. La concentrazione di questi materiali essenziali — la Cina produce circa l’80% delle terre rare e il Congo il 70% del cobalto — crea vulnerabilità nelle filiere globali e forti dipendenze geopolitiche. La pervasività di cloud, IA e connettività comporta un consumo energetico in rapida crescita: si ritiene che i data centre da soli assorbano circa il 2% dell’elettricità mondiale, rendendo il sistema digitale vulnerabile ai blackout e alle oscillazioni dei costi energetici. La collocazione geografica dei data centre, una sorta di «cattedrali» dell’era digitale, segue logiche strategiche: energia a basso costo, climi freddi, stabilità politica. A marzo del 2025, l’Italia era all’ottavo posto per numero di data centre, dopo Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia, Australia, Paesi Bassi e Russia. Negli Stati Uniti, la più alta concentrazione di data centre si trova in Virginia, nella Contea di Loudoun, che gestisce circa il 70% del traffico internet globale. Un quarto dell’energia elettrica prodotta dallo Stato è consumato da servizi digitali. Inoltre, l’infrastruttura digitale si estende nello spazio e negli oceani: le costellazioni di satelliti in orbita bassa e la rete globale di cavi sottomarini costituiscono una nuova frontiera strategica, poiché chi le controlla può isolare intere regioni dal resto della rete. Infine, il quasi monopolio di Taiwan (produce oltre il 90% dei chip più avanzati) costituisce un rischio sistemico, che ha spinto Stati Uniti, Unione Europea, Cina e Giappone a investire centinaia di miliardi per aumentare la propria autonomia tecnologica.

In sintesi, il digitale, pur sembrando ed essendo pubblicizzato come immateriale, è reso possibile da un substrato fisico, fatto di hardware, infrastrutture e materie prime, che qualcuno possiede e controlla. Questa materialità del digitale ha profonde implicazioni per la sovranità nazionale del Ventunesimo secolo. Paesi che controllano nodi critici dell’infrastruttura fisica possono esercitare forme di «sovranità digitale» ben oltre i propri confini geografici. Al contempo, Paesi che dipendono interamente da infrastrutture estere si trovano in posizione di vulnerabilità strutturale, esposti a possibili pressioni economiche o restrizioni all’accesso. Così la corsa al controllo dell’infrastruttura fisica del digitale ridisegna le mappe del potere globale, creando nuove alleanze e rivalità che trascendono i tradizionali confini territoriali, in un paradossale ritorno alla geopolitica classica nell’era apparentemente più smaterializzata della storia umana.

  • La quarta macro-tendenza è la fusione sempre più marcata, e spesso opaca, tra il potere politico e quello digitale. Da un lato, aziende ricchissime, con miliardi di utenti, operano ormai come «quasi-Stati», esercitando un’influenza diretta e pervasiva sulle vite di popolazioni più vaste di quelle di molti Paesi tradizionali. Dall’altro lato, i governi sfruttano tecnologie digitali belliche e per la sorveglianza di massa per estendere il loro controllo ben oltre i limiti tradizionali della sovranità fisica. Le decisioni cruciali su come raccogliere e gestire i dati, come progettare ed esercitare algoritmi, o come esercitare e implementare l’IA sono spesso prese dai consigli di amministrazione delle big tech o negli uffici riservati delle agenzie governative, ma hanno conseguenze sistemiche per miliardi di persone. Questa commistione di potere, legata a enormi flussi di capitale, è sempre più politica.

Da quanto appena delineato derivano rischi sistemici che non possiamo permetterci di ignorare. 

Iniziamo con la vulnerabilità dell’elemento «analogico» — le persone, con le loro fragilità psicologiche e sociali, le comunità, e l’ambiente naturale — che resta sotto-protetto rispetto alla rapidità della digitalizzazione. Investiamo miliardi per proteggere reti e dati, ma trascuriamo la sicurezza anche psicologica delle persone online. Ottimizziamo l’efficienza algoritmica, ma sottovalutiamo competenze umane fondamentali come il pensiero critico, l’empatia e la creatività nei sistemi educativi. Automatizziamo e delocalizziamo la produzione, ma rischiamo di lasciare indietro intere comunità senza adeguati programmi di riconversione. Inoltre, una società sempre più interconnessa diventa anche più fragile di fronte ai nuovi pericoli.

C’è poi il rischio che il controllo del digitale, apparentemente immateriale e distante, si trasformi in una forma indiretta ma estremamente efficace di controllo sulle vite delle persone e sulle dinamiche della società analogica. Chi controlla gli algoritmi di raccomandazione, ad esempio, non si limita a suggerire un prodotto o un contenuto; orienta in modo impercettibile ciò che leggiamo, le nostre scelte, le notizie che riceviamo, le nostre opinioni anche politiche, e perfino, in alcuni casi, le persone che incontriamo o che ci vengono presentate. Chi gestisce le grandi piattaforme della gig economy — come i servizi di food delivery o le piattaforme di trasporto — determina le condizioni occupazionali di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Nei soli Stati Uniti, la gig economy coinvolge in vario modo 42 milioni di lavoratori nel 2025. Chi possiede e gestisce i dati sanitari di una popolazione può influenzare l’accesso alle cure, alle polizze assicurative, e persino alla ricerca medica e allo sviluppo di farmaci. Questo potere indiretto è spesso meno evidente rispetto alle forme tradizionali di dominio basate sulla forza o sulla proprietà fisica ma non per questo meno efficace.

Infine, c’è il rischio di un’oligarchia digitale, intrinsecamente non democratica, costituita da un piccolo gruppo di attori: alcuni Paesi con capacità digitali avanzate, le grandi aziende tecnologiche, e pochi individui, il famoso 1%. I vantaggi competitivi nel digitale tendono ad auto-rafforzarsi, innescando spirali di concentrazione della ricchezza e del potere. Questa dinamica, lasciata a sé stessa senza interventi correttivi consapevoli e robusti, conduce a monopoli o oligopoli tecno-politici pericolosi.

Di fronte a questi rischi, non possiamo permetterci né l’ottimismo ingenuo che crede che la tecnologia si autoregolamenterà — i mercati fanno bene una cosa sola su tre: la creazione della ricchezza, ma non la distribuiscono, l’accentrano, e non proteggono ma esacerbano i danni generati dalla sua creazione — né il pessimismo che porta alla rassegnazione o alla iper-regolamentazione. 

Il populismo ha dimostrato che anche in democrazie mature e avanzate tenere le dita incrociate non è una strategia. In politica si può iniziare da «va tutto male» ma non si può finire con «non c’è niente da fare». 

Per affrontare questi rischi, servono almeno tre strategie fondamentali. Nessuna è originale, tutte richiedono la volontà politica.

  1. Investire nella formazione diffusa e consapevole. Ogni generazione nasce ignorante ma ha l’obbligo morale di morire educata, usando quello che ha imparato e capito per vivere una vita migliore e creare migliori condizioni di vita per chi le succede. Ogni tecnologia fornisce anche i mezzi per la sua gestione. La stessa IA offre straordinarie opportunità per l’alfabetizzazione e la formazione digitale, che deve accompagnarsi a un’educazione civica adeguata. Si può fare, ma ciò implica la volontà di imparare e disimparare continuamente e rapidamente.
  2. Garantire un controllo democratico, responsabilizzato e trasparente dei processi digitali che incidono direttamente sulle vite dei cittadini. Questo significa anche rendere gli algoritmi più comprensibili e spiegabili, permettendo di capire come prendono le loro decisioni, quali dati utilizzano e quali criteri applicano, con sistemi di appello e rettifica. E creare nuovi strumenti di partecipazione e supervisione democratica all’altezza dell’era tecnologica. Anche in questo caso, il digitale ha potenzialità enormi e sottoutilizzate.
  3. Sviluppare una progettualità politica lungimirante e consapevole della società digitale. L’evoluzione tecnologica non dovrebbe procedere per inerzia di mercato o secondo logiche puramente ingegneristiche e di massimizzazione del profitto. Queste sono il motore necessario, ma le mani sul volante, e la decisione su dove andare, restano alla società e alla politica. Se ci piace la direzione presa, la velocità con cui si svilupperà la società digitale sarà benvenuta. Questo implica investimenti strategici in ricerca e innovazione orientate esplicitamente al bene comune, non solo al profitto.

In sintesi, solo con più e migliore conoscenza, democrazia, e politica potremo governare la transizione digitale anziché subirla. È questo il compito della nostra generazione. 
Riecheggiando Gramsci: la società moderna è finita, quella digitale è solo all’inizio. 
È in questa transizione che possiamo fare le scelte migliori. 
La storia si fa sempre oggi.

Luciano Floridi (Roma16 novembre 1964) è un filosofo italiano naturalizzato britannico, professore ordinario di filosofia ed etica dell'informazione presso l'Oxford Internet Institute dell'Università di Oxford, dove è direttore del Digital Ethics Lab, nonché professore di Sociologia della comunicazione presso l'Università di Bologna.
Floridi è principalmente conosciuto per il suo lavoro di ricerca filosofica riguardante: la filosofia dell'informazione, la filosofia dell'informatica e l'etica informatica e per aver coniato il termine Onlife.
Dal 28 gennaio 2025 è presidente della Fondazione Leonardo - Civiltà delle Macchine, succeduto a Luciano Violante.