di ENZO
BIANCHI, La Repubblica, 11 agosto 2017
L’invito
del presidente della CEI, cardinal Bassetti, ad affrontare il fenomeno dei
migranti “nel rispetto della legge” e senza fornire pretesti agli scafisti è un
richiamo all’assunzione di responsabilità etica ad ampio raggio nella temperie
che Italia e Europa stanno attraversando. Un richiamo quanto mai opportuno
perché ormai si sta profilando una “emergenza umanitaria” che non è data dalle
migrazioni in quanto tali, bensì dalle modalità culturali ed etiche, prima
ancora che operative con cui le si affrontano. Non è infatti “emergenza” il
fenomeno dei migranti – richiedenti asilo o economici – che in questa forma
risale ormai alla fine del secolo scorso e i cui numeri sia assoluti che
percentuali sarebbero agevolmente gestibili da politiche degne di questo nome.
E l’aggettivo “umanitario” non riguarda solo le condizioni subumane in cui
vivono milioni di persone nei campi profughi del Medioriente o nei paesi
stremati da conflitti foraggiati dai mercanti d’armi o da carestie ricorrenti,
naturali o indotte. L’emergenza riguarda la nostra umanità: è il nostro restare
umani che è in emergenza di fronte all’imbarbarimento dei costumi, dei
discorsi, dei pensieri, delle azioni che sviliscono e sbeffeggiano quelli che
un tempo erano considerati i valori e i principi della casa comune europea e
della “millenaria civiltà cristiana”, così connaturale al nostro paese.
È un
impoverimento del nostro essere umani che si è via via accentuato da quando ci
si è preoccupati più del controllo e della difesa delle frontiere esterne
dell’Europa che non dei sentimenti che battono nel cuore del nostro continente
e dei principi che ne determinano leggi e comportamenti. È un imbarbarimento
che si è aggravato quando abbiamo siglato un accordo per delegare il lavoro
sporco di fermare e respingere migliaia di profughi dal Medioriente a un paese
che manifestamente vìola fondamenti etici, giuridici e culturali
imprescindibili per la nostra “casa comune”.
Ora noi,
già “popolo di … navigatori e trasmigratori”, ci stiamo rapidamente adeguando a
un pensiero unico che confligge persino con la millenaria legge del mare
iscritta nella coscienza umana, e arriva a configurare una sorta di “reato
umanitario” o “di altruismo” in base al quale diviene naturale minare sistematicamente
e indistintamente la credibilità delle ONG e perseguirne l’operato, affidare a
un’inesistente autorità statale libica la gestione di ipotetici centri di
raccolta dei migranti che tutti gli organismi umanitari internazionali
definiscono luoghi di torture, vessazioni, violenze e abusi di ogni tipo,
riconsegnare a una delle guardie costiere libiche quelle persone che erano
state imbarcate da trafficanti di esseri umani con la sospetta connivenza di
chi ora li riporta alla casella-prigione di partenza.
Ora
questa criticità emergenziale di un’umanità mortificata ha come effetto
disastroso il rendere ancor più ardua la gestione del fenomeno migratorio
attraverso i parametri dell’accoglienza, dell’integrazione e della solidarietà
che dovrebbero costituire lo zoccolo duro della civiltà europea e che non sono
certo di facile attuazione. Come, infatti, in questo clima di caccia al
“buonista” pianificare politiche che consentano non solo la gestione degli
arrivi delle persone in fuga dalla guerra o dalla fame, ma soprattutto la
trasformazione strutturale di questa congiuntura in opportunità di crescita e
di miglioramento delle condizioni di vita per l’intero sistema paese, a
cominciare dalle fasce di popolazione residente più povere? E, di conseguenza,
come evitare invece che i migranti abbandonati “senza regolare permesso”
alimentino il mercato del lavoro nero, degli abusi sui minori e della
prostituzione?
L’esperienza
di tante realtà che conosco e della mia stessa comunità, che da due anni dà
accoglienza ad alcuni richiedenti asilo, mostra quanto sia difficile oggi,
superata la fase di prima accoglienza e di apprendimento della lingua e dei
diritti e doveri che ci accomunano, progettare e realizzare una feconda e
sostenibile convivenza civile, un proficuo scambio delle risorse umane, morali
e culturali di cui ogni essere umano è portatore. Non può bastare, infatti, il
già difficilissimo inserimento dei immigrati accolti nel mondo del lavoro e una
loro dignitosa sistemazione abitativa: occorrerebbe ripensare organicamente il
tessuto sociale di città e campagne, la rivitalizzazione di aree depresse del
nostro paese, la protezione dell’ambiente e del territorio, la salvaguardia dei
diritti di cittadinanza. Questo potrebbe far sì che l’accoglienza sia
realizzata non solo con generosità ma anche con intelligenza e l’integrazione
avvenire senza generare squilibri.
Sragionare
per slogan, fomentare anziché capire e governare le paure delle componenti più
deboli ed esposte della società, criminalizzare indistintamente tutti gli
operatori umanitari, ergere a nemico ogni straniero o chiunque pensi
diversamente non è difesa dei valori della nostra civiltà, al contrario è la
via più sicura per piombare nel baratro della barbarie, per infliggere alla
nostra umanità danni irreversibili, per condannare il nostro paese e l’Europa a
un collasso etico dal quale sarà assai difficile risollevarsi.
Anche in
certi spazi cristiani, la paura dominante assottiglia le voci – tra le quali
continua a spiccare per vigore quella di papa Francesco – che affrontano a viso
aperto il forte vento contrario, contrastano la “dimensione del disumano che è
entrata nel nostro orizzonte” e si levano a difesa dell’umanità. Purtroppo,
stando “in mezzo alla gente”, ascoltandola e vedendo come si comporta, viene da
dire che stiamo diventando più cattivi e la stessa politica, che dovrebbe
innanzitutto far crescere una “società buona”, non solo è latitante ma sembra
tentata da percorsi che assecondano la barbarie. Eppure è in gioco non solo la
sopravvivenza e la dignità di milioni di persone, ma anche il bene più prezioso
che ciascuno di noi e la nostra convivenza possiede: l’essere responsabili e
perciò custodi del proprio fratello, della propria sorella in umanità.
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