Articolo tratto da Internazionale nr. 1592
del 6 Dicembre 2024
I cataloghi infiniti. Lo
strapotere degli algoritmi. La qualità sacrificata alla quantità. Lo streaming
ha ridisegnato le abitudini degli spettatori, cambiando la nostra idea di cos’è
un prodotto culturale.
Se vi avventurate nelle
profondità meno esplorate di Netflix – superate i “Drammi tv da guardare tutti
d’un fiato” e i “Thriller d’azione anni ottanta”, girate a sinistra a “Perché
hai guardato il film Lego Batman” e andate oltre la categoria “È
Halloween!” – alla fine raggiungerete il nucleo più nascosto della piattaforma,
dove giacciono strati dimenticati di contenuti fossilizzati dalla pressione dei
livelli superiori. Qui sotto, se cercate a fondo, troverete Richie Rich.
Forse lo
ricorderete come il protagonista di una vecchia serie a fumetti. Netflix l’ha
immaginato come un “ragazzino che si è fatto da solo”: ha scoperto una nuova
fonte di energia derivata da tutte le verdure che non ha mai mangiato ed è
diventato così la persona più ricca del mondo. Vive in una villa con un parco
divertimenti e una cameriera robot; suo padre è un balordo scansafatiche; la
sua migliore amica, interpretata dalla futura superstar di Netflix Jenna
Ortega, è una scroccona; un rapper di nome Bulldozah abita nella casa accanto,
con un figlio che è amico di Richie. In confronto alla versione cupa e
solitaria del personaggio interpretata da Macaulay Culkin nel 1994, qui la vita
di Richie è bella, anche se non priva dei problemi che derivano dal fatto di
essere un bilionario preadolescente.
Nel quarto
episodio della serie, Richie non riesce a scrivere un tema sul Mago di
Oz: sia il romanzo sia il film lo fanno addormentare, non sa come fare. Il
figlio di Bulldozah gli suggerisce di ricreare il film con i suoi amici e
amiche, e Richie gli dà ascolto. Ma appena comincia a lavorarci, le cose si
complicano. Il personaggio del Leone ha riscritto la propria parte diventando
un superganzo con tanto di moto. Anche Dorothy vuole essere alla moda: pensa
che dovrebbe venire da Parigi, non dal Kansas, e si fa chiamare Véronique. La
cameriera robot fa notare che l’Uomo di latta non può arrugginire, perché la
latta non si corrode, e decide così di diventare l’Uomo di tungsteno al
carbonio. Alla fine, il film viene girato in 3D, con dinosauri che viaggiano
nel tempo, un asteroide e robot spaziali malvagi, una scelta che offende la
cameriera di Richie. “Per una volta”, dice, “sarebbe bello vedere un modello
positivo per i giovani robot”.
Un nuovo protagonista
Senza volerlo, quest’episodio
solleva un interrogativo che aleggia sulla nostra epoca: cosa succede
all’intrattenimento quando nel settore arriva un nuovo protagonista, armato di
una quantità di denaro praticamente infinita?
Cosa succede, in altre parole,
quando compare Netflix?
La serie Richie Rich faceva
parte della prima ondata di prodotti originali Netflix, lanciata alla fine di
quel breve periodo in cui il pubblico generico riusciva ancora a seguire tutto
quello che l’azienda produceva.
Ha debuttato sulla piattaforma
all’inizio del 2015. Netflix era reduce dall’enorme successo di House
of cards, che l’azienda raccontava così: visto che gli abbonati amavano
Kevin Spacey e il regista David Fincher e che avevano apprezzato l’omonima
serie britannica, distribuita nel 1990, Netflix ha comprato un prodotto che
metteva insieme tutti e tre. Aveva speso molto, ma poteva permetterselo
perché sapeva cosa volevano guardare ancor prima di loro.
In origine la serie doveva andare
in onda su YouTube ed era stata girata con un investimento proporzionato alla
piattaforma. Ma come racconta Jeff Hodsden, uno dei creatori dello show, un
giorno i dirigenti di Netflix si sono presentati sul set e un mese dopo si è
sparsa la voce che avrebbero comprato la serie. Nelle puntate si vedono ancora
gli stacchi dove sarebbero dovuti andare i messaggi promozionali.
Nel 2014, l’anno in cui ha
comprato Richie Rich, Netflix ha accumulato debiti per quattrocento
milioni di dollari, che si sono aggiunti ai cinquecento milioni dell’anno
precedente. L’obiettivo era espandere la programmazione originale. Così, da
semplice distributore di dvd, l’azienda è diventata la principale piattaforma
di contenuti del mondo: prendendo in prestito montagne di denaro.
Nel 2015 ha raccolto sul
mercato azionario 1,5 miliardi di dollari, con l’obiettivo di triplicare
l’offerta di contenuti dell’anno precedente.
Nel 2016 un altro miliardo.
Nel 2017 la cifra è salita a tre
miliardi, con l’obiettivo di offrire ottanta film nell’anno seguente (in quel
momento stava già lanciando in media un prodotto a settimana).
Nei due anni successivi l’azienda
ha raccolto altri otto miliardi.
Netflix stava creando una
sorta di volano, in cui i finanziamenti raccolti sui mercati aiutavano a creare
nuove produzioni, queste portavano nuovi abbonati e gli abbonati portavano più
denaro.
Ma per alimentare il circuito dei
contenuti e degli abbonati, l’azienda aveva bisogno di continuare a vendere
azioni, al punto che nel 2019 aveva circa quindici miliardi di dollari di
debito a lungo termine.
Così si è guadagnata il
soprannome di Debtflix (dall’inglese _debt, _debito) nella stampa
finanziaria, che continuava a chiedersi se quel livello d’indebitamento era
sostenibile. Applicando a Netflix le logiche del settore dei mezzi di
comunicazione, la situazione appariva incerta, ma l’azienda agiva secondo le
regole dell’industria tecnologica:
spendere mucchi di denaro per
attirare clienti, cambiare le loro abitudini, e schiacciare la concorrenza fino
a trasformare un intero settore.
Ed è esattamente quello che ha
fatto Netflix.
Il catalogo della piattaforma
forse è stato costruito con il debito invece che con il capitale di rischio, ma
la sua enormità ne rivela la provenienza quasi da un altro universo, qualcosa
che solo la Silicon Valley avrebbe potuto immaginare.
Le sue dimensioni cambiano di
continuo, mentre divora e sputa contenuti: secondo gli ultimi dati resi noti
dall’azienda, i titoli sono più di 16mila, migliaia dei quali originali,
creati o acquisiti dalla piattaforma, destinati a rimanerci in teoria per
sempre, anche se lentamente sepolti da nuovi film, serie e documentari.
Se si ipotizza, con una stima prudente, che la durata media di un titolo in catalogo sia di due ore – un titolo può essere qualsiasi cosa: da un’intera stagione di una serie a un film di un’ora –
ci vorrebbero tre anni e mezzo di visione ininterrotta per
guardare l’intero archivio di Netflix.
Si tratta di una quantità di
contenuti superiore a quella che una persona può (o dovrebbe) guardare in una
vita intera. Quando una decina di anni fa sono state gettate le fondamenta di
questo incredibile catalogo, non avremmo mai potuto immaginarne l’ampiezza,
l’abbondanza e il senso di disorientamento che si prova nei suoi labirintici
corridoi.
Debiti su debiti
Una decina d’anni fa Reid
Hoffman, fondatore di LinkedIn, ha tenuto un seminario a Stanford
intitolato “La crescita fulminea permessa dalla tecnologia”.
In quell’occasione ha esposto la
sua teoria sulla crescita delle grandi aziende nel ventunesimo secolo:
avrebbero rapidamente ridotto le spese e aumentato i profitti, usando i
software e il vantaggio di essere i precursori per dominare interi settori.
Reed Hastings, fondatore di
Netflix e all’epoca anche amministratore delegato, è intervenuto allo
stesso seminario nel novembre 2015. Netflix era sopravvissuta alla bolla
tecnologica degli anni duemila e Hastings cominciava a percepire l’arrivo di
un’altra crisi.
“Nel 2000 raccogliere fondi era
facilissimo, come se bastasse scuotere una lattina per tirarne fuori cinquanta
milioni di dollari”, ha detto in quell’occasione. “Era incredibile. Non ho mai
visto nulla di simile. Fino all’anno scorso”.
Le operazioni con capitale di
rischio sono tornate ai livelli della bolla dei primi anni duemila alla metà
dello scorso decennio.
Nel 2015 sono state concluse
operazioni di questo tipo per 130 miliardi di dollari, quasi quanto i due anni
precedenti messi insieme.
Nel 2021 la cifra aveva raggiunto
un totale di 621 miliardi di dollari.
Tutt’a un tratto per chi
cercava una crescita fulminea c’era un sacco di denaro a disposizione.
Un fattore che può spiegare
l’enorme afflusso di capitali ai fondi di rischio è la politica dei tassi
d’interesse a zero (indicata con la sigla Zirp, zero interest rate
policy).
All’indomani della crisi
finanziaria globale, la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati
Uniti) ha ridotto i tassi di interesse quasi a zero e li ha mantenuti bassi per
più di un decennio. Di solito le banche centrali lo fanno per stimolare il
credito e rendere più agevole prendere in prestito denaro.
Ma la cosa spinge anche gli
investitori a prendere rischi maggiori:
quando il tasso della Fed è
intorno al 4,9 per cento, come oggi, è possibile ottenere rendimenti annui del
4,9 per cento quasi a rischio zero comprando titoli di stato statunitensi. Un
buon affare.
Ma quando il tasso è pari o
vicino allo zero, i rendimenti sicuri sono minimi.
Così il capitale si sposta lungo
la cosiddetta “curva del rischio”, verso investimenti che possono ancora
offrire guadagni significativi: immobili, azioni e, all’estremo, il capitale di
rischio (venture capital), che accetta di perdere un numero enorme di scommesse
in cambio di pochi successi estremamente redditizi. Una stima prudente del
tasso di fallimento delle startup è del 75 per cento.
Queste attività hanno in pratica
rimodellato il nostro mondo nell’ultimo decennio.
Anzi, per dirla tutta, sono state
progettate proprio con questo obiettivo.
In Da zero a uno,
la bibbia dei fondatori di startup, Peter Thiel scrive che la “legge di
potenza” sembra applicarsi anche agli investimenti in capitale di rischio:
“Il segreto più grande nel venture capital è che il miglior investimento di un
fondo di successo è uguale o supera tutto il resto del fondo messo insieme”. La
conclusione è che qualsiasi fondo degno di questo nome deve seguire due regole,
in qualche modo simili a quelle di Fight club.
“Primo:
investire solo in società che hanno il potenziale di creare rendimenti pari al
valore dell’intero fondo.
Secondo: dato
che la regola numero uno è così severa, non ci possono essere altre regole”.
Il libro di Thiel è una guida
alla ricerca di imprese in “monopolio creativo”: quelle che costruiscono
e dominano un mercato, arricchendo sé stesse e i loro fondatori, i quali, nella
visione di Thiel, potranno poi investire in ulteriori innovazioni. È questo il
senso della relazione tra venture capital e tecnologia: trasformare
continuamente il mondo.
Le aziende sono state
incoraggiate a crescere a ogni costo e a preoccuparsi degli utili in un secondo
momento, una strategia non inedita, ma che a un certo punto è stata spinta a
nuovi estremi.
Uber ha potuto bruciare miliardi
di dollari in contanti per circa quindici anni, piegando il mercato, abbattendo
le normative e i monopoli locali e alterando il comportamento dei consumatori,
per poi quotarsi in borsa con una valutazione di 82,4 miliardi di dollari,
mentre perdeva ottocento milioni di dollari a trimestre.
WeWork ha potuto perdere miliardi
di dollari a trimestre, comprando e ristrutturando immobili commerciali in
trentanove paesi, il tutto nel tentativo di ridisegnare l’ambiente d’ufficio a
immagine e somiglianza delle startup sostenute dal capitale di rischio –
flessibile, aperto, pronto a crescere, con piccole comodità per tutti – senza
mai realizzare profitti e infine dichiarando bancarotta l’anno scorso.
Queste spese sfrenate sono state
evidenti ovunque e hanno dato vita a quello che l’editorialista del New York
Times Kevin Roose ha definito il millennial lifestyle subsidy,
una sorta di contributo allo stile di vita dei millennial, cioè autisti a
richiesta, consegne a domicilio, servizi di pulizia, auto a noleggio, case in
affitto: tutti servizi offerti in perdita grazie a investimenti di rischio in
attesa di decollare.
È così che i millennial sono
arrivati a vivere come una massa di piccoli Raskolnikov: apparentemente in
miseria, ma con un’abbondanza di servitori a disposizione.
Forse bisognerebbe pensare agli
anni del picco della produzione televisiva come a una versione culturale dello
stesso fenomeno, un altro prodotto secondario della battaglia industriale che
infuriava negli spazi ancora vergini resi disponibili dalla tecnologia
informatica.
Netflix è atipica anche se
paragonata ad altre società di streaming, “una zebra tra cavalli”, come
la definisce la studiosa di comunicazione Amanda D. Lotz nel suo libro Netflix
and streaming video.
Apple TV+ e Amazon Prime Video
sono “complementi aziendali” di grandi società tecnologiche;
Paramount+, Peacock e Disney+
sono estensioni di classici studi cinematografici e attingono al loro
considerevole patrimonio di proprietà intellettuale;
Max è un Frankenstein nato dalla
fusione tra l’Hbo, l’unica antenata di Netflix ancora in vita, e una decina di
canali di nicchia via cavo.
Netflix è l’espressione più pura
del modello di streaming, e la forza trainante che ha convinto anche altre
aziende a spingersi oltre.
Il suo vasto catalogo ha cambiato
l’industria della televisione, offrendo prodotti migliori e mostrando agli
altri un modello da seguire, ma anche trasformando la natura stessa della tv.
Un tempo la televisione aveva
l’unico obiettivo di divertire il maggior numero di persone contemporaneamente,
il che era anche ciò che la rendeva così stupida: “La televisione è ciò che è”,
scriveva David Foster Wallace nel 1993, “per il semplice motivo che la gente
tende a somigliarsi terribilmente proprio nei suoi interessi volgari, morbosi e
stupidi, e a essere estremamente diversa per quanto riguarda gli interessi
raffinati, estetici e nobili”.
Il modello Svod
(Subscription video on demand, abbonamenti video su richiesta) ha liberato la
tv dalla legge dei numeri e dalla gabbia del tempo e ci ha fatto credere che i
nostri raffinati e nobili interessi potessero trovarsi sullo schermo.
Lotz sostiene che, sganciandosi
dall’obiettivo principale della tv tradizionale (cioè, vendere un pubblico agli
inserzionisti), il modello dello streaming “cambia completamente i calcoli
della programmazione”. Questo perché “invece di lavorare con un solo pubblico, lo
strumento on demand permette agli Svod di creare diverse audience”.
Lotz mi ha
fatto notare un’esperienza apparentemente banale, ma in realtà significativa e
curiosa, diventata comune in questa epoca: vai in un Airbnb e accendi la tv,
già aperta sull’account di qualcun altro, e vedi una marea di contenuti di cui
non conoscevi neanche l’esistenza. Stesso televisore, stessa app, stesso
abbonamento: eppure lo schermo si apre su un mondo alieno.
Incalcolabile abbondanza
A dicembre del 2023 Netflix ha
fornito una mappa senza precedenti del suo catalogo, pubblicando per la prima
volta un’analisi completa dei dati degli spettatori.
Si tratta di un foglio di calcolo
di meno di un megabyte che classifica 18.214 contenuti della gigantesca
libreria di Netflix in base al numero di ore di visione nei primi sei mesi del
2023, arrotondate al centinaio di migliaia.
Questo significa che la
classifica non è nemmeno esaustiva, perché esclude i titoli con meno di
cinquantamila ore di visione.
Al primo posto c’è il thriller The
night agent, su un agente dell’Fbi, con più di 812 milioni di ore di
visione.
In fondo c’é _ Il signor Kim,
il mio maestro_, una commedia sudcoreana del 2003 con centomila ore, anche
se questo posizionamento è il risultato del modo in cui Excel ordina il
catalogo.
Le ultime quattromila voci hanno
tutte centomila ore di visione, cioè il valore minimo della classifica, e sono
disposte in ordine alfabetico. Grazie alla notevole offerta internazionale di
Netflix, la fascia inferiore del club delle centomila ore è piena di titoli
in altri alfabeti: arabo, giapponese, coreano.
A parte i primi posti, dominati
dai Netflix Original e dai film per bambini, non è chiaro perché certi titoli
finiscano in determinate posizioni.
Perché Memento si
trova nel ghetto delle 300mila ore, mentre Coach Carter ha
ventuno milioni di ore di visione? Forse Memento era
disponibile solo in Slovacchia, forse è stato posizionato male nell’app. O
forse non ha mai innescato quel meccanismo algoritmico-culturale che trasforma
i titoli del catalogo storico in successi contemporanei. La classifica non lo
spiega. Scorrendola, però, si capisce come le dimensioni dell’archivio hanno
accentuato l’importanza del caso nelle nostre abitudini di consumatori.
Uno sguardo all’archivio può
impressionarci per la sua vastità, ma in realtà è come sbirciare dal buco della
serratura.
Quando apro Netflix sul mio
apparecchio, mi presenta subito un carosello di settantacinque nuove uscite;
poi i dieci migliori programmi televisivi di oggi negli Stati Uniti; appena
sotto altri settantacinque suggerimenti perché ho guardato il poliziesco Rebel
ridge; ancora più giù una selezione algoritmica di trentatré prodotti
“Scelti per te”; poi i “Drammi televisivi da guardare tutti d’un fiato”, ancora
settantacinque. Segue “Altri titoli da guardare”, una combinazione di programmi
guardati da mio figlio e da me. Poi ancora: “Le ultime dieci cose che non
abbiamo finito di guardare”; infine una lista di ulteriori settantacinque
titoli suggeriti perché ho guardato il thriller La fratellanza. E
in più almeno trenta caroselli di circa settantacinque titoli ciascuno. È un
sacco di roba, ma è solo una piccola fetta del catalogo.
Alla fine, ciò per cui paghiamo
non è un singolo film o serie tv, o tre o dieci o cinquanta, ma piuttosto
questo senso di incalcolabile abbondanza.
Il che significa, a sua volta,
che un solo titolo non può avere la stessa rilevanza che poteva avere nell’era
della televisione in chiaro.
In questo contesto, anche un
grande successo può sembrare una specie di fallimento.
Prendiamo Triple frontier,
il thriller d’azione del 2019 con Ben Affleck e Oscar Isaac: è stato uno dei
film di maggior successo della piattaforma in quell’anno, ma, come sottolinea
Lotz nel suo libro, questo non significa che abbia particolare valore per
l’azienda. Un budget di 115 milioni di dollari per un film è difficile da
giustificare per Netflix a prescindere dal volume dell’audience, perché in
fondo fornisce solo due ore di contenuti a una base di abbonati che paga
soprattutto per un’offerta apparentemente infinita.
Il dubbio di Lotz trova conferma
nelle parole di Ted Sarandos, il responsabile dei contenuti della piattaforma,
che durante una riunione, a quanto pare, citando proprio quel titolo, ha
chiesto un miglior bilanciamento tra budget e pubblico. Questo succedeva a metà
del 2019, quando la stampa finanziaria cominciava a farsi domande sulla
sostenibilità del modello di Netflix.
Matt Stoller, un saggista molto
critico verso i monopoli, ha citato questo episodio in un post del suo blog
dedicato alle difficoltà di Hollywood.
La sua teoria è che Hollywood
sia diventata così grande da non riuscire più a capire cosa vuole davvero il
pubblico.
Stoller cita il successo di Ritorno
al futuro, un film del 1985 che è diventato un cult e ha guadagnato
centinaia di milioni di dollari. Come ricorda il saggista, tutto era successo
lentamente: il film aveva debuttato a luglio in circa 1.400 sale, ed era
arrivato a 1.550 entro la fine di agosto, rimanendo in almeno mille cinema fino
al periodo natalizio (oggi un film hollywoodiano ad alto budget di solito
debutta in circa quattromila sale e sparisce in poche settimane).
Ritorno al futuro, scrive
Stoller, “arrivò in un mercato dove c’era un’interazione costante tra le
creazioni artistiche e il pubblico (e gli intermediari) che ne determinava il
successo e la validità. Oggi invece, secondo Stoller, il pubblico è soggetto a
una sorta di alimentazione forzata di contenuti, come se gli fosse offerto il
programma di quattromila sale alla volta.
La zombificazione della
cultura è stata resa possibile in parte dai mezzi di comunicazione digitali,
ormai simili a creature artificiali
La situazione è particolarmente
critica nell’ambito dello streaming, dove il tasso di abbandono (il numero di
persone che annullano un abbonamento) è ciò che incide davvero sui profitti.
Almeno per Netflix.
Per un’azienda come la Apple, in
cui l’attività di streaming è quasi un aspetto marginale, i titoli prodotti
rimangono nascosti nell’app e nessuno ne parla più, a prescindere da quanto
sono costati e dal valore dei talenti coinvolti.
In alcuni casi, le piattaforme hanno perfino deciso di non pubblicare film già pronti per poterne registrare le perdite nelle dichiarazioni fiscali.
Questi sono gli incentivi del
mercato dello streaming spinti al paradosso: l’intrattenimento di massa è
totalmente scollegato dai segnali che arrivano dal mercato, paradossalmente a
opera di entità che conoscono le nostre abitudini di consumo come non era mai
successo in passato.
Questo non significa che le
piattaforme non abbiano successo e che le persone non guardino la tv in
streaming.
Nel 2023 Netflix ha accumulato
183 miliardi di ore di visione. Ma può spiegare l’ascesa della cosiddetta mid
tv (televisione mediocre): spettacoli costosi, abbastanza brillanti e
con cast di qualità, che però riescono a essere al massimo “carini”, per citare
il critico televisivo del New York Times James Poniewozik.
È innegabile che nel lungo
viaggio della tv qualità da una serie come The Wire a una
come The Bear, si è insinuata una certa stanchezza: commedie con
poche battute, drammi senza intensità, una decisa tendenza a scrivere trame
nostalgiche e incentrate sui traumi dei protagonisti e un sacco di riprese
fatte in Canada.
La prima generazione di titoli
di alto livello è stata creata da veterani della tv tradizionale in cerca
di libertà espressiva, persone che conoscevano i rudimenti del mestiere, cosa
tiene lo spettatore incollato allo schermo durante la pubblicità: ritmo,
struttura, dialoghi credibili.
Ma da circa dieci anni non è
più così, e alla fine ci si trova davanti allo stesso problema di Richie
Rich: quando anneghi nei soldi, è facile dire sì a tutto.
Alla vecchia maniera
Forse l’effetto più disorientante
di questa situazione è lo scollamento tra quello che guardiamo e quello che
pensiamo di guardare.
È un tema costante della critica
televisiva da Mad men in poi, ma è difficile negare che da
allora le cose siano decisamente peggiorate.
Davanti alle cifre di Netflix ci
si rende conto che la tv di qualità non è per forza il risultato del modello di
streaming, ma piuttosto il felice prodotto collaterale di un’industria in
transizione, che forse oggi somiglia in qualche modo a una piccola sottocultura.
Prendiamo per esempio I
think you should leave, lo spettacolo comico diventato fonte
inesauribile di meme da condividere sui social media. È difficile pensare a
un’altra serie le cui battute siano diventate così rapidamente di uso comune
online; eppure, l’ultima stagione, uscita nella prima metà del 2023, non è
nemmeno tra i primi tremila titoli di Netflix: occupa il 3.181° posto.
Precisiamo: la serie è uscita a maggio, quindi i dati riflettono solo il primo
mese di visione; gli episodi sono molto brevi, circa quindici minuti, e ce ne
sono solo sei a stagione; quindi, il criterio delle “ore viste” la penalizza
sicuramente. Tuttavia, non è nemmeno tra i primi cinquecento titoli nel
rapporto sugli ascolti della seconda metà del 2023, che usa criteri di
misurazione leggermente diversi.
Rumore bianco di
Noah Baumbach, con Adam Driver e Greta Gerwig, una delle uscite più
pubblicizzate di due inverni fa, è stato il 547° titolo più visto nella
classifica dell’inizio del 2023, superato, tra gli altri, da White
chicks, un film del 2004 dei fratelli Wayans. Rumore bianco è
stato un fallimento se paragonato a Fubar, una serie con Arnold
Schwarzenegger di cui non avevo mai sentito parlare, e alla prima stagione di
uscita, nel 2021 è, a quanto pare, tra i maggiori successi di Netflix, con
entrambe le stagioni nella top 10 della piattaforma. Neanche di questa serie
avevo mai sentito parlare né conosco qualcuno che ne sappia qualcosa. Forse è
un problema mio. Ma forse è anche vostro.
Fenomeno globale
Abbonati a Netflix per aree del
pianeta, 2021-2023, milioni (spglobal.com)
Ricordate Hannah Gadsby, la
comica australiana autrice di Nanette, il monologo del 2018
onnipresente nei discorsi dell’era del MeToo? Gadsby ha prodotto un altro show
nel 2023, Something special, di cui non sapevo nulla prima
di studiare le classifiche di Netflix.
È nelle ultime posizioni,
superato da lavori di comici mai amati dalle élite (come Andrew Santino e
Leanne Morgan) e, in particolare, da una figura che suscita soprattutto
ostilità: Shane Gillis, il cui Beautiful dogs è stato però uno
degli spettacoli di stand-up comedy più visti dell’anno.
Ovviamente il compito dei mezzi
d’informazione non è solo raccontare al pubblico cos’è più in voga, e Nanette è
stato sicuramente molto più visto di Something special, in parte
anche grazie a quanto se n’è parlato sui mezzi d’informazione.
Ma il fatto è che per anni
nessuno di noi ha avuto la minima idea di cosa stesse succedendo in quel mondo:
ci siamo affidati ai suggerimenti di amici, social media, giornali, riviste e
siti web, tutti accecati allo stesso modo.
Netflix ha continuato a produrre
i suoi rapporti, e io ho continuato a osservare con stupore le prime
posizioni. The night agent, Outer banks, One
piece, La mia prediletta, Who is Erin Carter?, The
gentlemen, sono tutti nella top 5 di Netflix secondo i tre rapporti diffusi
finora.
Non conosco nessuno che li abbia
guardati e non credo di aver mai letto nulla al riguardo prima di cominciare a
scrivere quest’articolo. Sembrano reliquie di un mondo parallelo in cui certe
novità non sono mai arrivate, a dimostrazione di quanto sia commercialmente
saggio fare le cose alla vecchia maniera. E fanno pensare ai grandi discorsi
che circondano ogni episodio dei programmi televisivi più alla moda, usati per
cercare di capire lo zeitgeist, lo
spirito del tempo. E se alla fine il geist del nostro zeit consistesse
semplicemente nel guardare tutta di fila una serie basata su un romanzo di
Harlan Coben (chi?) e intitolata Un inganno di troppo? È stato il
titolo più visto su Netflix nella prima metà di quest’anno.
Uber e zombie
Alcuni economisti hanno
criticato la politica dei tassi d’interesse a zero perché facilita la nascita
delle cosiddette “imprese zombie”: aziende che sopravvivono solo grazie
alla disponibilità di capitali a basso costo, che si trascinano rifinanziando
il debito, senza mai fallire. Una specie di creature artificiali.
Proprio a questo mi riferisco
quando penso a come il mondo della tecnologia si è impossessato della cultura.
Negli ultimi anni queste
strategie commerciali, e il fiume di denaro usato per realizzarle, hanno dato
vita a una sorta di zombificazione della cultura, cancellando davanti ai nostri
occhi un mondo che sembrava vivo e reale.
Le lingue della piattaforma
Le lingue dei contenuti visti su
Netflix da gennaio a giugno del 2023, % del totale (netflix)
Questo zombificazione è stata
resa possibile in parte dai mezzi di comunicazione digitali, aziende tenute a
galla dall’esuberanza degli investitori e dalla disponibilità di denaro a basso
costo, cosa che è diventata evidente solo a posteriori.
Quando l’anno scorso Vice ha
dichiarato bancarotta, il Financial Times l’ha definita un “fenomeno Zirp” e un
“inceneritore di denaro”, che aveva raccolto centinaia di milioni di dollari da
investire in una crescita mai arrivata.
Con il senno di poi, è difficile
non chiedersi se questa situazione abbia creato un branco di zombie, che hanno
cominciato a seguirsi a vicenda lungo uno strano percorso lastricato di
tanti Nanette, titoli più interessanti da analizzare per come
coinvolgono lo spettatore che da guardare.
I creatori di questi spettacoli
sapevano a malapena chi fosse il loro pubblico – e in effetti l’accesso ai dati
degli spettatori è stata una delle richieste avanzate durante lo sciopero degli
sceneggiatori dello scorso anno – ma potevano accedere alle critiche scritte da
qualche giovane appena laureato.
Con ogni probabilità i programmi
hanno cominciato a riflettere questi input e si sono creati strani circuiti di
feedback. Possiamo solo fare ipotesi su come sia successo. Quello che
possiamo dire con certezza è che l’abisso tra discorso d’élite e discorso
popolare che si è spalancato in questi anni è stato favorito dall’invasione del
mondo tecnologico nella cultura pop.
Ora che il rigore fiscale si fa
sentire, Netflix ha messo fine all’era dell’espansione.
Ci sono stati licenziamenti. Il
nuovo responsabile del settore cinematografico, Dan Lin, ha cancellato i
progetti più costosi che non avrebbero trovato un pubblico sufficiente.
E, cosa forse più importante, nel
2022 Netflix ha introdotto una fascia “con annunci pubblicitari”,
coinvolgendo nuovamente proprio quei protagonisti da cui qualche anno prima
aveva liberato la televisione.
Questo non significa certo la
fine della tv intelligente e creativa.
Baby reindeer, per
esempio, la serie più interessante, brillante e coraggiosa realizzata
quest’anno da Netflix, è stata anche uno dei suoi maggiori successi. Ed è stata
prodotta nel Regno Unito, a migliaia di chilometri da Hollywood, che si sta
riprendendo solo ora dallo sciopero degli sceneggiatori, con una sostanziale
riduzione della produzione.
Il produttore e scrittore James
Schamus ha lamentato quella che definisce la “uberificazione” di Hollywood,
alimentata dalle piattaforme di streaming: Netflix e le sue concorrenti
avrebbero degradato il talento creativo, passando dal sistema che prevedeva la
condivisione dei profitti a quello in cui gli sceneggiatori lavorano per una
retribuzione fissa su commissione.
Il paragone con Uber è
particolarmente azzeccato, perché l’azienda di San Francisco – indiscusso
campione dell’era Zirp – ha contribuito a creare un mondo chiaramente migliore
sotto diversi aspetti, ma peggiore, forse in modo meno percettibile, per altri:
meno caratteristico, meno interessante e a volte forse anche meno utile.
Secondo gli ultimi dati, a New
York ci sono più di centomila veicoli di Uber o simili e le strade di Manhattan
non sono mai state così trafficate.
I tempi di risposta delle
ambulanze peggiorano di mese in mese.
Un recente articolo del New York
Times raccontava una corsa in taxi dal terminal di Port Authority al Museo
d’arte moderna: un percorso di appena undici isolati durato più di mezz’ora.
L’articolo citava uno studio
secondo cui più della metà delle auto in circolazione sono a noleggio: i
classici taxi gialli sono stati sostituiti da un’anonima flotta di berline e
suv, prenotabili comodamente con un’app, che servono le richieste del mercato
così bene da bloccare le strade della città.
Forse è proprio in questa
direzione che sta andando l’intrattenimento: sempre nuovi prodotti disponibili.
Come non era mai successo in passato. Più di quanto si possa sognare. E per
accedere alle novità basta premere un tasto, come avete sempre sperato che
fosse.
Se poi tutto questo sia in grado
di portarvi dove volete, è un’altra faccenda.
La buona notizia è che se vi
annoiate, potete sempre guardare il cellulare...
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