Tratto dall'intervista a Daniela Lucangeli sul Messaggero di Sant'Antonio di Lucia Cananzi
Perché essere genitore è diventato così complicato? È possibile un’alternativa, che renda più leggero il compito e più efficace e serena la relazione educativa con i bambini? Ne parliamo con Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo.
C’è un modo giusto per essere genitore, per salvaguardare la crescita e la salute fisica e mentale dei propri figli? È la domanda delle domande che tormenta chiunque abbia o aspetti un figlio e che agita stuoli di esperti veri o presunti, di ricercatori, persino di influencer, tutti alla ricerca del «sacro Graal» della genitorialità perfetta. Tanto rumore per nulla direbbe Shakespeare, perché alla fine al tappeto ci finiscono proprio i genitori. Inondati da informazioni che dicono tutto e il contrario di tutto, sperimentano loro malgrado un’impreparazione al ruolo che forse neppure immaginavano. Un disorientamento che assomiglia molto a una crisi d’identità collettiva, anzi alla somma di tante crisi d’identità, che non riescono neppure a parlarsi.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, fotografato anche dall’ultima indagine Quid+, rivolta ai genitori per comprendere come si sentano nel proprio ruolo. Hanno risposto in 3mila. Il 77% si percepisce preoccupato, i più denunciano difficoltà organizzative ed economiche e scarso accesso ai servizi come gli asili nido, ma una buona fetta lamenta un disagio più esistenziale, si sente in crisi, solo, ansioso, inadeguato, sotto stress, iper-responsabilizzato; solo un esiguo 10% si dichiara adeguato e consapevole. Perché essere genitore, uno dei ruoli più fisiologici dell’esistenza, è diventato così complicato? E soprattutto, è possibile un’alternativa, che renda più leggero il compito e più efficace e serena la relazione educativa con i bambini? Abbiamo posto le questioni a Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo e neuroscienziata, che, avendo un approccio multidisciplinare a questi argomenti, riesce a cogliere sfaccettature inedite e diversi piani di senso.
La società dello stress
Già lo sguardo d’insieme al tema è una capriola: «La prima cosa da comprendere è che oggi, nella società occidentale, a sentirsi attaccati, inadeguati, stressati non sono i genitori, sono gli esseri umani – afferma Lucangeli –. Il diventare genitore si aggiunge a una serie di altri doveri, è una delle tante richieste sociali a cui assolvere. È una condizione che gli esperti chiamano “gestione performativa dell’adulto”». Ogni adulto, cioè, deve essere al massimo della performance in tutte le sfere della vita: «Non solo al lavoro, ma nella società, dove deve essere amabile, piacevole, deve avere tanti amici, magari la casa al mare. E persino nella vita privata, dove deve dimostrare grande abilità di gestione nelle relazioni d’amore, che includono anche quelle con i figli». Il problema è che in questo sistema complesso ed esigente, l’adulto non è preparato né dal punto di vista delle competenze, né da quello della gestione dello stress ad affrontare le tante e diverse sfide. È per questo che l’arrivo di un figlio aggiunge complessità a complessità: «Se non si legge la genitorialità all’interno di questo sistema – avverte Lucangeli –, difficilmente si può capire che cosa sta succedendo ai papà e alle mamme di oggi».
Un contesto da cui derivano una serie di conseguenze. La prima è che i tempi e i modi della genitorialità sono plasmati dal sistema sociale: «Il figlio s’inserisce nel momento in cui viene programmato come compatibile con tutte le altre richieste. Per questo arriva tardi, in genere appena prima che finisca il tempo biologico. La conseguenza, però, è che il diventare genitori si sposta verso gli anni della centralità della performance, quando l’energia è già tutta in uscita e si fa fatica a ricaricarsi». I dati confermano. L’Istat rileva che nel 2024 l’età media del primo parto è ulteriormente cresciuta e si attesta a 32,6 anni (+0,1 in decimi di anno sul 2023), era di 25 anni alla fine degli anni ’90. Ne deriva che la maggior parte delle famiglie ha un figlio unico, «se ne ha due è perché o uno è nato per un errore giovanile, o perché i genitori hanno pensato di metterne al mondo due vicinissimi prima della fine del tempo biologico. Se si arriva a tre si è una famiglia altamente numerosa. Questa è la concezione sociale dominante».
Piccoli re
«Il digital babysitting può innescare il primo grande meccanismo di “sprogrammazione” – continua Lucangeli –. Non solo il bambino è intrattenuto da uno schermo ma vede anche i genitori, che a loro volta hanno bisogno di isolarsi, perdersi nelle loro connessioni tecnologiche, ignorandoli. E così i figli sperimentano l’allontanamento dello sguardo del genitore proprio negli anni determinanti della connessione io-io e dell’attaccamento. Un meccanismo molto profondo perché è una struttura limbica, del cervello antico, un vero e proprio interruttore della salute mentale». Gli esperti chiamano questo fenomeno parental phubbing, dall’inglese phone, telefono, e snubbing, ovvero snobbare, un’assenza in presenza che destabilizza, perché i genitori in questa età sono il principale punto di riferimento. «È uno dei grandi fattori di rischio per la salute mentale – continua la neuroscienziata – perché innesca insicurezza e indebolisce l’attaccamento affettivo, tanto che alla lunga può portare a disturbi dell’umore, dalla depressione all’aggressività».
La grande contraddizione
Ed ecco che si delinea la «grande contraddizione». Da una lato genitori non più giovani, stressati e nel pieno del tempo della performance cercano di essere i genitori migliori possibili, dall’altro figli unici, super viziati, piccoli re che rischiano di essere emotivamente trascurati e addirittura ignorati pur tra mille attenzioni. Di fronte a questo corto circuito, l’atteggiamento degli esperti si divide in due partiti: da un lato c’è chi fa forza sui sensi di colpa dei genitori, sottolineandone le mancanze anche in modo aspro per ottenere una reazione che ridia slancio al loro ruolo educativo, ma con il rischio di aumentare lo stress, l’isolamento e la depressione, che sono tra i fattori alla base della crisi genitoriale, e lasciando nell’ombra le tante concause di questa situazione; dall’altro, al contrario, c’è chi tenta di penetrare la complessità dell’attuale voragine educativa, studiandone le cause e approntando percorsi di consapevolezza e accompagnamento per genitori. Una scelta, però, che è molto più complicata e lunga. «Il problema è che su questi temi di vitale importanza c’è un grande vuoto istituzionale – denuncia Lucangeli – così invece di mettersi insieme per cercare soluzioni condivise e codificate, ogni realtà educativa fa da sé e non è facile per i genitori individuare l’esperienza, e ce ne sono molte nei territori, che può davvero aiutarli».
E così capita sempre più spesso che i genitori rispondano al disagio loro e dei figli prendendo decisioni radicali, molte volte poco maturate e progettate: vanno a vivere su un monte o in campagna, oppure tolgono i figli dai sistemi sociali, optando, per esempio, per le scuole parentali, dove i genitori stessi fanno da insegnanti ed educatori. Non a caso, queste ultime sono cresciute sensibilmente negli ultimi anni soprattutto dopo il covid. Secondo dati del ministero dell’Istruzione, si è passati dai 5.126 studenti istruiti a casa del 2018 ai 15.361 del 2020-2021 e, a sentire gli esperti, la tendenza sarebbe in aumento. «Queste scelte più che risposte ai problemi sono reazioni e quando si reagisce lo si fa per impulso, non con previsione e modulazione. Queste soluzioni offrono una condizione affettiva in cui il genitore è più presente, ma isolano i bambini dai contesti sociali in cui devono imparare a stare. Con il rischio che la toppa nuova sul vestito vecchio, alla fine rompa il vestito».
Come farsi aiutare
Trovare un aiuto tra le mille proposte dei territori e i mille Soloni dell’educazione, però, è difficile. Secondo quali criteri bisogna valutare? «Innanzitutto, partire dall’idea che un problema complesso non può avere risposte semplici e veloci, né risposte che vanno bene per tutti – riassume Lucangeli –. Eviterei tutte le progettualità che si basano sulla critica dei genitori, perché rischiano di suscitare reazioni incontrollate, e tutte quelle che definiscono come debba essere un genitore e quali regole debba seguire, perché la realtà è troppo complessa per essere cristallizzata in formule. Consiglierei di cercare invece quelle esperienze che consentano innanzitutto di capire come si è adulti in questa epoca del mondo e, poi, come si è padri e madri consapevoli in questa epoca del mondo. E quindi invece di una mindfulness ci sarebbe bisogno di una parentalfullness, cioè di un percorso che consenta di diventare genitori in pienezza di sé».
Sembra più facile a dirsi che a farsi. Lo stress, la performance, le mille richieste della società, i tempi stretti non spariscono neppure con la consapevolezza. «L’ideale sarebbe iniziare a formarsi quando si decide di diventare genitori, perché è un cambiamento d’identità. Un processo che richiede pazienza e tempo e che non si risolve “in dieci semplici lezioni”. Le progettualità dei territori che fanno questo tipo di esperienze – che sono tantissime e non necessariamente cliniche – sono un accompagnamento al tempo del vivere. Non ti dicono che genitore devi essere ma ti aiutano a trovare le tue modalità di essere genitore in un dato contesto, quindi all’interno della complessità in cui viviamo oggi. Fuori da queste esperienze collettive, nessuno ti aiuta a riflettere su che madre o padre vuoi essere per questa creatura, in questo dato momento. Ci vuole una pazienza di maturazione che oggi la società non asseconda, mentre persino per far maturare le ciliegie ci vuole un anno».
Che cosa può succedere se questa maturazione genitoriale non avviene? «Faccio un esempio – risponde Lucangeli –. Dopo il periodo del figlio re, a un certo punto, il bambino delizioso a cui sei abituata, altera il suo umore, diventa uno sconosciuto che non sei più in grado di gestire. Non sai cosa fare, perché, risucchiata dalla performance fino a quel momento, non ti sei mai presa il tempo per la consapevolezza di te e per imparare a modulare il tuo di umore. E così non sai più gestire la complessità emozionale e affettiva di un altro umano. A questo punto ti dai la colpa di tutto e corri ai ripari, o almeno così pensi. E quindi cerchi le soluzioni che ti sembrano migliori, a problema scoppiato. Incominci a mettere regole e paletti mai visti prima, a inserire il latino e l’atletica, ad arginare l’arginabile. Ma il risultato è che metti sotto assedio tuo figlio, un cambiamento per lui incomprensibile, visto che è stato re fino all’altro giorno, e che lo soffoca. E così, reagendo d’emergenza, cuci la toppa sul vecchio vestito ma cucendo la toppa rompi il vestito».
Per arginare questi corto circuiti pericolosi è importante sapere come matura un bambino: «Devi conoscere cosa aspettarti da tuo figlio in ogni fase della sua vita, perché lo devi prevenire, devi comprendere i suoi tempi del cambiamento. Essere genitore di un bambino di 6 anni è totalmente diverso da esserlo di uno di 12. Ma soprattutto devi porti un obiettivo da perseguire costantemente: io da madre come voglio accompagnare questo mio figlio? Come voglio essere madre nella sua memoria? Magari posso accettare che mi trovi debole in alcune cose, per esempio non sono una grande cuoca, né posso accompagnarlo a calcio, ma voglio, invece, che viva come forza la mia attenzione a come si sente, a cosa ha bisogno in qualsiasi momento».
Per un’altra madre e un altro figlio potrebbe essere diverso: «Magari proprio il cibo, preparato con amore, diventa la cura che nutre anche la sua anima». Al fondo di tutto c’è una questione d’identità: «Sono un genitore consapevole nella misura in cui ho preso coscienza di chi sono io. È per questo che è sempre più urgente per il bene dei bambini aiutare gli adulti a capire come si è adulti in questa epoca del mondo».
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