Francesca Albanese è una relatrice speciale delle
Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, incaricata dal 2022 di
monitorare e denunciare le violazioni dei diritti umani nell’area. È anche
vittima di una campagna di discriminazione e delegittimazione online ad
opera della Israeli Government Advertising Agency, agenzia che
opera come gruppo di comunicazione per il governo di Benjamin Netanyahu.
Digitando il suo nome su Google, infatti, ci si può
imbattere in un annuncio sponsorizzato che la accusa di aver “violato i
principi di imparzialità, universalità e integrità professionale, fondamentali
per il suo mandato alle Nazioni Unite” e di contiguità con Hamas.
La vicenda, riportata da un’inchiesta di Fanpage.it, non
sarebbe un episodio isolato ma parte di una strategia comunicativa più
ampia, una vera e propria campagna digitale volta a delegittimare voci
critiche sul conflitto a Gaza attraverso strumenti come la pubblicità
online, i social e i video generati con l’intelligenza artificiale.
Albanese, recentemente sanzionata dagli Stati Uniti e
accusata di antisemitismo e di essere fautrice di «una campagna di guerra
politica ed economica contro gli Stati Uniti e Israele», è da tempo al centro
di una conversazione estremamente polarizzata attorno alle sue posizioni. Ma al
di là della questione politica, questa vicenda ci costringe a interrogarci su
una questione fondamentale: cosa succede quando gli spazi
dell’informazione diventano luoghi di pressione, dove la narrazione viene
costruita non solo con le parole, ma con il denaro e con gli algoritmi?
Ne abbiamo parlato con Enrico Marchetto,
marketer e Founder di Noiza.
L’intervista
Cosa ci dice il caso Francesca Albanese sul potere degli
strumenti pubblicitari digitali quando sono usati non per vendere prodotti, ma
per influenzare l'opinione pubblica o screditare una persona?
Il caso di Francesca Albanese è davvero lampante.
Lampante di come da un lato lo strumento pubblicitario
online non sia usato solo per vendere proteine solubili ma per influenzare
l'opinione pubblica e, in questo caso, screditare "il nemico".
Dall'altro lato è l'ennesimo pezzo del puzzle che va a comporre l'ingegneria
del consenso.
Ma andiamo con calma e spieghiamo meglio.
Da un punto di vista tattico, quello a cui assistiamo è una pratica che assomiglia, per esempio, alle tante forme di "Brand Protection" presenti sul motore di ricerca.
Perdonate la semplificazione ma proviamo a capirci meglio: io ho un hotel e faccio delle inserzioni in modo tale da assicurarmi il primo posto su Google e non essere scavalcato dai vari Booking, Trivago e tutte le piattaforme che provano ad agire come intermediari con la mia struttura.
Nel caso di Francesca Albanese,
il principio è molto simile: per scavalcare l'ovvio primo posto di una
biografia su Wikipedia, il primo punto di atterraggio visibile sarà un link che
la scredita. Per fortuna questo non accade perché se al momento cerchiamo
"Francesca Albanese" sul motore di ricerca il link sponsorizzato del
governo israeliano è l'ultimo link presente nella SERP (Search Engine Results
Page). Quindi l'effetto, seppur indubbiamente presente, è relegato a una
porzione di visibilità ridotta.
Cosa ci dice tutto questo?
- Che
sto usando l'advertising per imporre una narrazione di parte e la sto
mostrando a tutto il volume delle search (5 milioni di ricerche).
- Che
cerco autorevolezza, "sono su Google, sono il Governo Israeliano,
sono un risultato in prima pagina".
- Che
posso targetizzare su un pubblico ben preciso, per rafforzare il consenso
oppure fare prospecting, cioè andare a influenzare persone nuove che si
stanno informando in questo momento sul caso Albanese.
- Che
riesco a essere persistente, perché se ho budget infinito allora posso
tenere l'annuncio all'infinito – a differenza di qualsiasi altro media,
che dopo un po' va in archivio surclassato dal posizionamento di
informazioni più recenti.
- Ultimo
ma non ultimo, il fatto stesso che io stia facendo advertising su
Francesca Albanese diventa "notiziabile", moltiplicandone
l'effetto.
Quando una piattaforma come Google ospita un annuncio,
gli dà automaticamente credibilità. Ma da un punto di vista tecnico, quanto
sono davvero responsabili le piattaforme per i contenuti che approvano? E quali
limiti ci sono, se ci sono?
Non è detto che la comparsa di un annuncio sia immediatamente un attestato di credibilità.
In questo caso Google agisce da editore: ospita gli annunci di chi lo paga.
In realtà per policy non dovrebbe
pubblicare annunci diffamatori ma, evidentemente, in questo caso l'algoritmo
non ha ravvisato questo tipo di pratica.
Immagino che dalla moderazione automatica si dovrebbe passare urgentemente a una moderazione umana, che prenda in considerazione il possibile tentativo di screditamento della persona.
Le piattaforme sono
sicuramente responsabili di ciò che pubblicano, ma ci sono una marea di limiti
tecnici e spesso operativi: il volume di annunci caricato ogni giorno, il
limite del controllo algoritmico, il confine molto sottile (e inquietante) tra
la libertà di parola e la disinformazione, la poca rapidità di azione ovvero
l'accorgersi di una pubblicazione diffamatoria quando il danno è già stato
fatto.
Perché siamo così propensi a credere a quello che
leggiamo online, soprattutto quando conferma le nostre idee?
È una questione che dura dalla notte dei tempi, è un
centinaio di anni che la sociologia della comunicazione si occupa di
manipolazione mediatica.
Lascio tre spunti legati principalmente al marketing online:
- Bias
di conferma, la tendenza continua a cercare informazioni che vanno a
confermare la mia credenza preesistente. Ho dei dubbi su una narrazione
mainstream? Cerco gli elementi che mi rafforzino il dubbio. Solo che nel
2025 non serve più cercare perché l'algoritmo traghetta verso di te uno
stimolo confermativo
- Polarizzazione.
L'elemento divisivo genera ingaggio, l'ingaggio genera visibilità, la
visibilità genera ulteriore ingaggio e via dicendo. L'ingaggio sia pro che
contro è sempre complice della risonanza del messaggio. Sì, purtroppo
anche questa intervista, in parte, è complice.
- Overload
informativo. E come si risponde all'overload informativo? Con la
semplificazione. L'approccio critico è faticoso e spesso siamo in attesa
che qualcuno ce l'abbia al posto nostro.
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