Nell'antichità l'aborto era
fondamentalmente una questione di donne, il feto era considerato una sorta di
appendice del corpo della madre, e l'aborto era perseguibile solo nei casi in
cui ledeva un interesse maschile.
È il cristianesimo che per primo
equipara l'aborto all'omicidio, ma ci vorranno secoli per codificare il momento
in cui avviene l'animazione del feto. La situazione muta radicalmente tra il
Sei e Settecento quando il feto acquista una sua autonomia, grazie alle
acquisizioni scientifiche, e con la Rivoluzione francese, dopo il 1789, entra
nella sfera pubblica.
Con il movimento femminista e con
la depenalizzazione dell'aborto oggi molti segnali ci dicono che qualcosa sta
cambiando: l'aborto è una questione di tutti, donne e uomini.
---------
La prima cosa davvero
interessante da dire è che del corpo delle donne per secoli non si è saputo
niente.
Pensateci: prima del progresso
scientifico del Seicento, il corpo umano era un mistero. Questa ignoranza, nel
corso della Storia, ha avuto il curioso effetto di proteggere la sfera intima
delle donne. Delle donne non si sapeva niente, del concepimento non si sapeva
niente, delle mestruazioni non si sapeva niente. Era anche praticamente
impossibile distinguere tra aborti naturali, volontari, infanticidi.
Nessuna era certa di essere
gravida fino a quando la pancia non iniziava a crescere: la malnutrizione
rendeva il ciclo sporadico, e spesso le donne – e gli uomini – cercavano in
altri sintomi (voglie, sensazioni) piuttosto incerti, la prova dell’avvenuto
concepimento.
Al netto di questa ignoranza, il fulcro della faccenda, in epoca
antica, riguardava l’autonomia del feto rispetto alla gestante. Cioè, se si
potesse già considerare il feto un individuo a sé.
Il giureconsulto romano
Ulpiano disse: "mulieris portio vel viscerum", ossia che il feto, prima del
parto, è parte delle viscere della donna. Questa visione, che dà alla donna
piena autorità in materia di maternità, si accorda con il fatto che la
mortalità infantile era allora all’ordine del giorno. Questo voleva dire che
era molto più importante salvare e tutelare la donna durante il parto rispetto
al bambino, che sarebbe comunque morto, con ogni probabilità, nei primi anni di
vita.
Gli uomini non presenziavano
al momento del parto, e i medici lo consideravano un evento indegno delle loro
capacità.
Così erano le donne a far nascere e le donne a far morire, come
emerge da certi racconti straordinari di storici che si dilungano sul felice
rapporto tra donne, piante officinali e veleni vari – usati per abortire.
Non so quanti di voi abbiano
letto il bel romanzo Lapvona di Ottessa Moshfegh. Uno dei personaggi più
interessanti che lo animano è quello di Ina, una levatrice cieca che allatta i
bambini del villaggio, conosce i segreti delle piante e vive da emarginata,
temuta eppure ricercata da tutti. Era questa in effetti l’aura delle levatrici,
come racconta Galeotti citando Yvonne Verdier: “Fait les bébés et fait les
morts”. Molte delle donne condannate per stregoneria dal 1400 al 1700 furono
levatrici.
Ad ogni modo, il filo che
sostiene una totale appartenenza del feto alla madre si snoda fino ad arrivare
a oltre il 1700, quando il giurista Cangiamila dice: “Il frutto mentre è
sull’albero è porzione del medesimo”. Naturalmente però, di fili ce ne sono stati
molti, spesso dipanati dai grandi monoteismi e intrecciati alle scoperte
scientifiche e alle teorie filosofiche delle varie epoche.
Tra i greci e i romani, l’aborto
era moralmente e legalmente accettato a patto che il padre fosse d’accordo. Del
resto, si pensava che l’anima entrasse nel corpo del neonato solo una volta che
questo fosse uscito dalla pancia della donna. Tra i “non favorevoli” noti in
Grecia ci sono Ippocrate – che considerava la pratica rischiosissima – e gli
stoici, che sostenevano che la natura dovesse fare il suo corso senza che
l’uomo stesse lì a interromperla.
A Roma l’aborto – considerato puramente
l’asportazione di una parte della donna – era praticabile, purché non
offendesse il padre.
Stupisce l’episodio raccontato da
Tito Livio secondo cui, nel 214 a.C., in segno di protesta contro una legge che
vieta loro le carrozze, le matrone decidono di scioperare e procurarsi aborti
volontari finché non le riottengono.
C’è chi storce il naso: tra questi Plinio
il Vecchio, che sostiene che l’aborto sia una devianza femminile, e altri che
temono per l’estinzione del genere umano. Perché a Roma si legiferi per la
prima volta sull’aborto bisogna però aspettare l’epoca Caracalliana, dopo circa l'anno 200, durante la
quale le donne che abortiscono per far dispetto all’uomo vengono condannate a
un breve esilio, e coloro che trafficano con filtri magici e ricette abortive
ai lavori forzati.
È un momento importante, che
segna il parziale ingresso dell’aborto nella pubblica piazza.
Raffigurazione del parto a Roma.
Con il cristianesimo le cose
cambiano: l’aborto diventa omicidio.
Ne La dottrina dei dodici
apostoli, databile attorno all’anno 100, si dichiara che l’aborto è senza
dubbio peccato perché si uccide una creatura di Dio. Tra l’altro, dato che
spesso le donne si procuravano un aborto per nascondere l’adulterio, i peccati si
sommavano.
Ma in quale momento della
gestazione, per la Chiesa, viene infusa l’anima nel nascituro? Non tutti sono
concordi nell’affermare che questa infusione avvenga fin dal principio, ma in
linea di massima per i cristiani l’embrione prima e il feto poi non appartengono
alla madre, ma sono già organismi autonomi di fronte a Dio, e ne è la prova il
fatto che non basta che la donna sia battezzata perché lo sia automaticamente
anche il figlio. Solo nel caso in cui il feto metta a repentaglio la vita della
donna, allora si può procedere con il male necessario. Questo è un dettaglio
importante.
Per il cristianesimo la vita del
bambino non sarà mai più importante di quella della donna, a differenza di
quanto non succederà molti secoli dopo in ambito laico.
Ad ogni modo, il
Concilio di Elvira del 300 circa stabilisce che la donna che ha commesso adulterio
e poi si è procurata un aborto deve essere per sempre esclusa dalla Chiesa.
Bisogna pensare però che, prima di Costantino, il cristianesimo era un culto
frequentato da pochi. Quindi nel momento in cui viene concessa la libertà di
culto, circa dieci anni dopo il Concilio, è vero che aumenta il numero di
cristiani, ma il dogmatismo della fede inizia a diluirsi nella massa, e le pene
per l’aborto si ammorbidiscono.
In ogni caso, il cristianesimo
sarà sempre severamente contrario alla pratica, e le dichiarazioni dei Papi che
ancora oggi fanno indignare e scandalizzare sono gli echi di una tradizione
millenaria, che molto difficilmente potrà essere scalfita.
Dal breviario di Martino I
d’Aragona.
Ora, è vero che il cristianesimo
è rigido, ma ricordiamoci che siamo ancora in un’epoca di grande confusione
medica e anatomica, e per le donne è ancora piuttosto facile nascondere una
gravidanza o addirittura non accorgersi di essere incinte. Vale la pena
chiedersi allora come si pensava avvenisse il concepimento da un punto di vista
scientifico.
Fino al Seicento, l’idea diffusa
era che l’utero fosse un contenitore che permetteva allo sperma maschile di
fermentare e dare luogo all’embrione. La donna quindi era un ricettacolo
passivo utile a far maturare il potenziale maschile. Tutto cambia con il
progresso scientifico, la scoperta del microscopio, lo studio dei cadaveri,
delle piante e degli animali. Prende piede la buffa ipotesi preformazionista
grazie alla scoperta dei “testicoli femminili”, ossia le ovaie al cui interno
si troverebbero già esserini preformati.
Stravaganti ipotesi a parte, è in
questo periodo che gli uomini – medici – vengono ammessi al parto.
Si tratta di
un cambiamento enorme. I dottori lavorano in coppia, e si dividono in medici e
chirurghi: i primi sono intellettuali, teorici, di classe sociale alta, i
secondi popolani. Del resto, spesso la storia della medicina è animata da
barbieri, come accade nel caso della chirurgia estetica: in Italia, per lungo
tempo, i nasi sono stati proprietà esclusiva dei barbieri.
E come spesso avviene quando gli
uomini occupano un campo che è sempre stato delle donne, inizia una campagna
violenta per sminuirle.
Così le levatrici perdono improvvisamente il loro ruolo
sociale. Perfino la più illustre tra costoro, Louise Boursier, sposata con un
medico e che operava nella corte francese, subirà una campagna di diffamazione
da parte dei colleghi maschi a seguito della morte della sorella della regina,
avvenuta a sei giorni dal parto supervisionato da Boursier.
Dice Scipione
Mercurio nel 1603 che i parti “per lo più sono commessi da donne le quali
troppo presumono nella medicina (...). Imparino a eseguire quello che da periti
medici vien comandato e non vogliano intromettersi in professione tanto
disconveniente al loro stato”.
Louise Boursier.
Il Settecento è il secolo in cui
il feto, fino ad allora inimmaginabile ai più, viene mostrato. Compaiono i
manuali di anatomia dove viene illustrato nel dettaglio, e questa visione
cambia tutto. Ancora oggi, mostrare il feto, descriverlo, è un affare spinoso,
su cui antiabortisti e pro-choice si scontrano: vedere un organismo già
piuttosto formato rende molto difficile liberarsene senza sensi di colpa o
tentennamenti. Oltretutto, spazza via i dubbi sull’autonomia o meno rispetto
alla madre: il feto è un individuo, e come tale va rispettato.
Ecco, è successo: ora il feto è
un affare pubblico, maschile. Cambia tutto. L’intimità che la donna aveva con
se stessa e il suo corpo viene violata, e la sua autorevolezza minata. È la
scienza a dire se una donna è incinta o meno, è la scienza a stabilire la
natura di quel feto, è la società a decidere le sorti dell’eventuale nascituro.
In questo contesto, muta ovviamente anche il controllo della Chiesa sul corpo
delle donne.
Se l’embrione è già formato, il
problema dell’infusione dell’anima viene meno, e l’aborto è un omicidio a
qualunque stadio della gravidanza. E infatti nel 1679 il Sant’Uffizio condanna
la possibilità di abortire per le ragazze ai primi stadi di gravidanza che
altrimenti verrebbero diffamate o uccise e sancisce una volta per tutte che
l’anima esiste dal momento del concepimento.
Diventa poi legittimo praticare
un cesareo post-mortem per salvare l’anima del feto, e i peccati legati alla
gravidanza si moltiplicano: ora non ci si deve muovere troppo, ballare o
divertirsi, onde evitare aborti spontanei.
Nel 1500 Leonardo Da Vinci
disegnò il feto pur senza averlo mai visto.
Con la rivoluzione francese, il
valore della nascita cambia ancora di significato: un paese più popoloso è un
paese più forte. Quindi l’aborto non è tanto un problema morale, religioso: è
tema sociale, politico.
Diderot scrive che quanto più uno
Stato è popoloso, tanto più sarà potente. La mortalità delle donne durante il
parto, unita a quella neonatale, genera preoccupazione nei cittadini e stimola
invettive contro gli Stati che non si curano delle loro donne. Di conseguenza,
il ruolo di madre viene ammantato di un eroismo drammatico. È qui che nasce
l’idea della maternità come sacrificio, della donna disposta a tutto, perfino a
morire, pur di far vivere il nascituro. La gravidanza è un affare di Stato, e
la donna incinta non appartiene più a se stessa ma alla propria patria.
I Paesi europei si impegnano per
sistematizzare la conoscenza acquisita: si formano nuove levatrici sottoposte
ai medici, si insegna alle donne come nutrirsi e cosa fare e non fare in
gravidanza.
A questo punto il nascituro non va difeso in quanto individuo o
creatura divina, ma in quanto futuro cittadino.
Non a caso questo è il momento
in cui lo Stato inizia gradualmente a prendere il posto della Chiesa per quanto
riguarda lo sviluppo del cittadino vita natural durante: si fanno censimenti –
un tempo appannaggio del clero – e si registrano nascite, morti e matrimoni.
In Italia le decisioni giuridiche
prese riguardo all’aborto nell’Ottocento sono durate fino al 1975. Sono
previste pene severe dai 5 ai 10 anni, ma nella fattispecie vengono raramente
applicate troppo severamente, perché coloro che tentano di abortire rischiano
la vita e non vengono considerate sane di mente; vengono invece condannate le
donne che l’aborto lo praticano.
In Italia dopo la Prima guerra
mondiale e con il fascismo le pene per chi pratica l’aborto si inaspriscono,
perché, in epoca colonialista, dove grande enfasi era posta sulla potenza
militare, le donne che lo richiedono stanno impoverendo il Paese.
Addirittura
negli anni Quaranta ci sono ancora invettive contro il coito interrotto, che
defroda lo Stato di futuri cittadini.
La direzione generale della Sanità
sostiene che: “Al pari della denatalità, l’aborto è un male che si diffonde e
si intensifica nelle Nazioni più evolute, dove la donna, nell’egoistico
desiderio di crearsi una vita emancipata, si allontana dalla sua missione
naturale di sposa e madre”.
Naturalmente, con la Germania
nazista, le cose si fanno più inquietanti. Mentre si incoraggia la “razza
ariana” a procreare, si accorda il permesso di abortire alle razze inferiori,
fino ad arrivare a vere proprie condanne a morte per le donne gravide non
ariane: è per questa ragione che nel ghetto di Kovno in Lituania il rabbino
Oshry permette alle donne ebree di abortire perché fossero risparmiate dal
Regime.
Due curiose eccezioni: in Russia
dal 1920 al 1936 l’aborto è legale, e dal ‘36 lo diventa anche in Spagna per
volontà della ministra della sanità Federica Montseny. Verrà però reintrodotto
come reato da Franco, appena quattro anni dopo.
Manifesto fascista della "Giornata
della madre e del fanciullo".
Dagli anni Cinquanta in poi
cambia tutto. Le donne occidentali, dopo le guerre, sono più consapevoli dei
propri diritti, bisogni e importanza.
I valori contadini vengono meno,
la Chiesa perde il ruolo di guida morale, perde fedeli, le donne vogliono
autodeterminarsi e finalmente, con l’avvento della pillola, possono farlo.
Otterranno poi la legalizzazione
dell’aborto in Italia nell’81, e saranno libere di scegliere se e quando
procreare, rendendosi conto della struttura patriarcale che per millenni aveva
regolato le loro vite anche – e soprattutto – a causa dell’ineludibilità del
loro destino di madre.
Si comincia a parlare di aborti,
si comincia a raccontarli, e quella esperienza una volta segreta, pericolosa e
vergognosa diventerà uno dei temi che unirà di più le donne nelle battaglie per
i diritti civili.
Le donne di tutto il mondo si
auto accuseranno di aver abortito, spediranno lettere ai ministeri di
giustizia, le donne famose ammetteranno di averlo fatto su riviste e
quotidiani, e persino i magazine femminili cominceranno a parlarne, sbattendo
in faccia alle istituzioni e ai governi un problema comune a tutte. Si
renderanno pubblici i processi alle ragazze ree di aver abortito, si
organizzeranno manifestazioni femministe partecipatissime.
In Italia il dibattito sul tema è
vivacissimo sui quotidiani e in televisione, e rimane famosa la risposta di
Italo Calvino a Pier Paolo Pasolini che era contrario all’aborto:
“Nell’aborto
chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo
cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la
sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto
a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi
la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una
situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale impiega la
sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un
bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle
misure igienico-profilattiche; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo
faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella
sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo
vitalismo dell’integrità del vivere è per lo meno fatuo. Che queste cose le
dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e
che responsabilità è il far vivere delle altre vite”.
C’è anche quella di Giorgio
Manganelli, che non è da meno.
E oggi? Oggi in Italia c’è ancora
la 194, che è una legge che non piace quasi a nessuno.
Ma bisognerebbe ricordarsi di difendere il diritto all’aborto, non una legge
imperfetta.
Ospedale Henry Ford di Frida Khalo.