Finiti i brindisi delle feste natalizie,
ma sempre desiderosi di aperitivi e apericene vari, mi sembra interessante ripercorrere
la storia delle molte bevande alcooliche che il genere umano ha da sempre inventato
ed ampliato…
CIN! Alla nostra
salute!
L’alcol: le origini
Conosciuto già nel periodo
neolitico (circa 8000 a.C.), l’alcol tremila anni dopo, con l’affermarsi delle
prime civiltà, divenne un prodotto essenziale per diverse popolazioni e culture
che ne facevano uso durante i momenti rilevanti della loro esistenza.
L’alcol nelle sue varie
declinazioni veniva regolarmente utilizzato per i sacrifici offerti agli Dei,
nei riti religiosi, per la benedizione che precedeva le battaglie, prima
dell’esecuzione dei prigionieri, per celebrare vittorie, nei riti sacrificali, in
occasione di nascite e matrimoni, partenze o decessi, per infondere coraggio,
per curare malattie e come rimedio contro la fatica.
Intorno al 4000 a.C. l’alcol ebbe
un ruolo fondamentale nell’Antico Egitto, paese in cui non vigeva alcuna legge
sul consumo di alcolici e luogo in cui erano già presenti taverne e birrerie,
vere e proprie fabbriche che producevano e vendevano diversi liquori e
distillati.
All’epoca si producevano circa
diciassette tipi di birra e circa venticinque tipi di vino, proposti sul
mercato e consumati come un vero e proprio alimento, venivano impiegati a scopo
terapeutico, utilizzati in occasione di riti religiosi o riposti nelle tombe
come dono ai defunti e agli Dei.
Il cocktail nella storia
Recipienti di terracotta
rinvenuti durante studi archeologici sulla vite condotti sulle rive del fiume
Tigri dal professor Patrick McGovern dell’Università della Pennsylvania
dimostrano come il cocktail sia nato addirittura ben 5000 anni fa.
Recentemente lo storico del bar
David Wondrich ha trovato la parola “cocktail” riportata nel quotidiano The
Farmer’s Cabinet del 28 aprile 1803, nel quale un anonimo raccontava in un
articolo: “alle 11 bevvi un bicchiere di cocktail. Eccellente per la
testa.”
Una prima spiegazione del termine
“cocktail” è riscontrabile in un articolo di Harry Croswell, pubblicato sul
quotidiano The Balance and Columbian Repository il 13 maggio del 1806.
Nel testo il giornalista
rispondeva alla richiesta di chiarificazione del termine inoltrata da un
lettore, dopo che questi aveva trovato tale parola in un articolo dello stesso
Croswell pubblicato nel medesimo quotidiano la settimana precedente.
Nell’articolo l’autore raccontava
di un repubblicano che aveva perso le elezioni per essersi giocata la
reputazione acquistando alcuni drink e spendendo ben 24 dollari in cocktail.
In risposta all’attento lettore,
il giornalista spiegava così il significato della parola cocktail: “Bevanda
stimolante, composta da diverse sostanze alcoliche, zucchero, acqua e amaro,
volgarmente chiamata Bittered Sling”.
Le Leggende
La più famosa leggenda,
tramandata ormai da numerosi scrittori del settore, relativa all’etimologia
della parola cocktail ha origine ai tempi della Guerra d’Indipendenza Americana
(1775 – 1783), e vede come protagonista Betsy Flanagan, vedova di un
rivoluzionario e proprietaria di una taverna a Four Corners nei dintorni di New
York, la quale preparò un drink decorato con una piuma di gallo. Il
piacevolissimo sapore della bevanda mise di buon umore gli avventori del
locale, in quel periodo prevalentemente ufficiali francesi, i quali, in segno
di ringraziamento, finirono per brindare alla salute della signora levando i
bicchieri e gridando “Vive le Cock-tail!”, ossia “Viva la coda del
gallo!”.
Sull’origine della parola
cocktail troviamo un’altra leggenda ambientata a New Orleans, patria del jazz.
Essa racconta di un farmacista di nome Antoine Amadee Peychaud
che soleva somministrare ai suoi pazienti una mistura forte e tonificante a
base di bitter e brandy, in seguito chiamata Peychaud Bitter. La miscela veniva
servita in una coppa grande, simile ad un portauovo, chiamato in francese
“coquetier”. La storpiatura della pronuncia da parte dei pazienti, poco pratici
della lingua romanza, fece sì che “coquetier” divenisse “cock-tiy” e in seguito
“cocktail”.
Di leggende sul cocktail e sulla
sua origine se ne contano oggigiorno una trentina; storie provenienti da
diversi paesi, tutte interessanti e valide da raccontare per intrattenere e
incuriosire il cliente allietando la sua serata.
Bar-tender
Il come e il quando è iniziato il
bartending, rimane tuttora un mistero, ma di certo questa pratica risale a
migliaia di anni fa.
Già ai tempi dei babilonesi
erano presenti le Taverne e nel codice di Hammurabi esistevano leggi scritte
per regolamentare i comportamenti e i divieti per i tavernieri.
Si ritiene che i primi veri
bartender risalgano ai tempi dei romani quando la cultura delle taverne
si era largamente diffusa e si bevevano svariate tipologie di vini e bevande
sotto forma di mix realizzati dall’oste stesso mescolando vino con erbe
aromatiche e miele.
Prima del quindicesimo secolo
la maggior parte dei bartender era costituita principalmente da Innkeeper,
ovvero proprietari di locande che lavoravano dietro al bancone dei loro locali
e producevano essi stessi prodotti a base alcolica come liquori e birra da
servire alla propria clientela.
Il bartending, parola
comparsa intorno al 1830, era considerato un mestiere poco reputabile e solo
dal 19° secolo la percezione relativa a questa professione cominciò a cambiare.
L’uso di servire i cocktail
iniziò a svilupparsi nel diciannovesimo secolo negli Stati Uniti, paese in cui,
all’inizio del secolo, cominciarono a nascere i primi Saloon e dove, allo
stesso tempo, si fece strada la moda di bere i Mixed Drinks così chiamati in
America. Questo fenomeno portò il conseguente incremento del numero dei
bartender la cui professione cominciò a diventare e ad essere riconosciuta come
un vero e proprio lavoro.
Questo periodo fu chiamato la Golden
Age dei saloon e dei bar d’hotel, proprio grazie al sempre più massiccio
consumo di spiriti e liquori, spesso sapientemente miscelati in cocktail dal
gusto intrigante e insolito.
Jerry Thomas detto Il
Professore, è considerato il padre del bartending moderno grazie alle sue
esperienze, ai suoi numerosi viaggi, ai locali gestiti, ai numerosi cocktail da
lui creati e certamente anche per la sua abilità professionale dietro al
bancone. Ma ciò che lo rese più famoso in tutta la comunità del bartending e
degli amanti del buon bere fu soprattutto il suo libro del 1862 The Bar
Tenders guide (or How to Mix Drinks), considerato il primo libro del suo
genere: un completo compendio sui cocktail, sui prodotti alcolici e non,
impiegati nella mixologia, e sulle tecniche di preparazione dei liquori e dei
cocktail.
All’incirca nello stesso periodo
arrivarono altri grandi personaggi come Harry Johnson, Leo Engel, William
Schmidt, George Kappeler, F.C. Lawlor e William Boothby, bartender che
contribuirono a loro volta allo sviluppo del bartending sia nell’invenzione di
nuovi cocktail sia nel miglioramento delle preparazioni degli stessi.
Dopo la metà del
diciannovesimo secolo in quasi tutte le grandi città europee venivano
preparati e serviti i famosi Mixed drinks americani come il Mint Julep, il
Crusta e il Cobbler.
Nel 1882 il Chicago Tribune fece una sorta di sondaggio chiedendo ai barman qual fosse il cocktail più alla moda e il risultato fu l’Old Fashioned, mentre verso la fine del diciannovesimo secolo dominò il Martini cocktail.
All’inizio del nuovo secolo le
cose cambiarono, i cocktail cominciarono a evolversi, si tentavano nuove
sperimentazioni e nuovi accostamenti tra diversi liquori e spiriti. Questa
nuova spinta di innovazione fu però smorzata dalla Prima Guerra Mondiale e
dal Proibizionismo che portò conseguenze disastrose a livello sociale ed
economico colpendo in modo rilevante il mondo degli alcolici e della loro
distribuzione e tutto il sistema economico collegato.
Molti bar vennero chiusi e di conseguenza i bartender rimasero senza lavoro costretti ad emigrare verso Cuba, Canada ed Europa. Tra questi ritroviamo il famoso bartender Harry Craddock che fece le valige all’indomani della proclamazione dell’inizio del Proibizionismo e andò a lavorare al Savoy di Londra per prendere il posto di un’altra grande barmaid che era Ada Coleman (quasi al termine della sua carriera).
La criminalità organizzata
dilagante scatenò una guerra spietata per acquisire il controllo sulle vendite
dell’alcol prodotto illegalmente; inoltre, per bere bevande alcoliche le
persone si cimentavano in distillazioni di fortuna, di nascosto dalle autorità,
utilizzando alambicchi artigianali. Spesso ne risultava un prodotto di pessima
qualità, dal sapore a volte sgradevole, tanto che erano frequenti
intossicazioni a volte con esito letale.
I trafficanti (bootlegger)
vendevano alcol di scarsa qualità a prezzi molto alti mentre la corruzione
dilagava tra gli agenti federali, i giudici e i poliziotti. Inoltre, dato da
non trascurare, furono molti i milioni di dollari persi dallo stato americano
per il mancato incasso delle tasse sull’alcol.
L’unico fattore positivo del
Proibizionismo fu la nascita di nuovi drink grazie a nuove modalità di
preparazione e all’inserimento nelle ricette di succhi di frutta, panna e molti
altri ingredienti.
I barman americani che fuggivano
dal Proibizionismo portarono la loro cultura del bar nella capitale cubana,
talvolta perfino trasportando fisicamente il bancone e gli arredi del proprio
bar.
Per tutto il periodo del
Proibizionismo Cuba visse un’epoca d’oro per il bere miscelato: i Cantinero
impararono molti cocktail americani e i metodi di lavoro dei bartender
statunitensi creando a loro volta molte nuove miscelazioni che diedero origine
a svariati nuovi cocktail.
I bar più rinomati si trovavano
all’interno di alcuni hotel come il Nacional, il Sevilla Baltimore e
l’Inglaterra, e in locali come lo Sloppy Joe’s, il Floridita, nel quale già
operava il grande Constantin Ribalaigua, e la Bodeguita del Medio meta
di molti americani famosi e facoltosi, attori, industriali e politici. Anche
noti personaggi della malavita americana si recavano a Cuba per riunirsi e
divertirsi durante il weekend bevendo alcolici senza temere e sottostare alle
restrizioni introdotte negli USA, per poi tornare nel loro paese, come avvenne
durante the Havana Conference, il famoso meeting tra i mafiosi capeggiati da
Lucky Luciano.
In Europa il bere
miscelato e i cocktail vivevano la loro golden age nei bar di Berlino, al
Ritz di Parigi, all’Harry’ s Bar di Venezia oppure al Savoy di Londra.
In Italia il Movimento
Futurista aveva preso piede anche nel mondo dei drink che diventavano
sempre più fantasiosi, spesso serviti con l’accompagnamento di pezzetti di
formaggio, di frutta o di cioccolata.
In questo periodo inoltre furono
creati i cocktail più celebri e conosciuti oggigiorno, come
il Negroni al bar Casoni di
Firenze,
il Bloody Mary all’Harry’s bar
di Venezia,
l’ Hanky Panky al Savoy di
Londra e
il Mimosa al White Lady,
creati in Europa per mano di
barman anche loro famosi come Harry McElhone, Frank Meier, Ferdinand Petiot,
W.T. Tarling, Torelli, Jean Lupiou, Petro Grandi, Fosco Scarselli e tanti
altri.
Da sottolineare anche come
tantissimi American bar nacquero nel vecchio continente in quest’epoca proprio
per soddisfare i numerosi turisti americani i quali erano desiderosi di poter
consumare prodotti alcolici a loro preclusi dal divieto della vendita di alcol
e liquori nel loro Paese.
Al termine del Proibizionismo il Rum conquista un posto rilevante nel mercato per il semplice motivo che era economico da acquistare.
Don Beachcomber fu il primo ad aprire un bar in stile tropicale con cucina polinesiana, adattata al gusto americano dove si vendevano principalmente cocktail a base di rum e succhi di frutta tropicali con l’aggiunta di spezie, serviti nei bicchieri e in altri contenitori più bizzarri e fantasiosi.
Subito dopo seguì le sue orme un
altro barman, Trader Vic. Questo tipo di locale si consolidò così da far
nascere più tardi il movimento chiamato Tiki che durante la Seconda
Guerra Mondiale divenne una vera e propria moda, non limitata solamente alle
isole Hawaii e ad altre isole tropicali, ma esteso a tutte le parti d’America.
Negli anni ‘40 la vodka
venne introdotta nella preparazione di numerosi cocktail come il Moscow Mule,
il Bloody Mary e il Martini cocktail. Quest’ultimo viene citato per la prima
volta con questa variante nel libro di Lucius Beebe, lo Stork Club del 1946, in
cui la ricetta venne modificata con l’uso della vodka al posto del gin.
Questa variante divenne uno
slogan con il famoso agente segreto James Bond, che nell’ordinare i suoi
Martini cocktail ordinava la variante con vodka Shaken not Stirred!
Durante gli anni ‘50 e ‘60
andava di moda bere il Martini cocktail molto secco, ed alla fine degli anni
Sessanta i Tiki bar e i cocktail cominciarono a tramontare.
Gli anni ‘70 e ‘80 vengono
definiti gli Anni Bui o Dark Age nella cultura del bere, forse anche per
il fatto che il presidente Jimmy Carter era contrario al consumo dell’alcol e
contro le campagne pubblicitarie per promuoverlo ai consumatori.
Verso la fine degli anni ‘90
assistiamo alla riscoperta del cocktail e del mondo bar con la conseguente
ripresa del consumo dei cocktail classici che vengono nuovamente richiesti e
consumati.
A Milano, per esempio,
esplode nuovamente la moda dell’Aperitivo, vero e proprio rito della
quotidianità sociale, con la riproposizione di cocktail come l’Americano, il
Negroni e l’Aperol Spritz accompagnati con stuzzicherie varie, sempre più
elaborate.
I Tiki drinks cominciano ad
essere nuovamente rivalutati, la moda del Flair diventa più popolare grazie
anche al film Cocktails di qualche anno prima con Tom Cruise nelle vesti di
barman acrobatico.
Il nuovo Millennio portò
grandi cambiamenti nel mondo del bar. A New York cominciarono a riapparire gli
Speakeasy, bar ‘segreti’ che furono famosi durante il periodo del
Proibizionismo, e ritornarono in voga alcuni vintage drink come l’Old
Fashioned, il Martinez cocktail, il Sazerac, il Ramos Fizz, il Mint Julep, i
Cobblers e il French 75.
Negli anni a seguire
arrivano i cocktail Molecolari realizzati con nuove tecniche,
utilizzando ghiaccio sintetico, gelatine, spuma ed altri prodotti da
laboratorio per esaltare profumi, aromi e gusto delle preparazioni.
L’affinamento delle tecniche ha portato sia all’invecchiamento in botte di
cocktail già miscelati che venivano poi serviti spillati come si trattasse di
birra sia ad una fase in cui i drink sono stati proposti già imbottigliati,
pronti per il consumo.
Oggi parliamo di veri e
propri Laboratori ‘Lab’ nelle cantine e negli office dei bar dove si
elaborano nuove tecniche di preparazione degli ingredienti, come la
macerazione, l’essicazione e la distillazione.
Si lavora anche con la
fermentazione degli ingredienti, che provengono da tutte le parti del mondo con
svariate specie di piante, fiori, spezie ed altri ingredienti di cui non si era
mai sentito parlare prima d’ora.
Sebbene però i cocktail creati
ogni giorno in tutto il mondo siano numerosissimi, i più richiesti e prediletti
dalla clientela restano sempre e comunque gli intramontabili Classici.
Inoltre, in questo millennio
anche la figura del barman è cambiata, si è evoluta per rispondere alle nuove
richieste di una clientela sempre più attenta ed esigente. Divenuto ormai un
professionista a 360 gradi si occupa non solo della preparazione dei cocktail ma
anche di altre numerose attività. I ruoli che riveste sono infatti molteplici:
events manager, ambasciatore, consulente, docente, formatore, esperto del web,
produttore, viaggiatore, alchimista, giornalista, scrittore e via dicendo,
andando quindi a creare molteplici nuove specializzazioni strettamente legate
alla sua figura di barman e al mondo del bar.
Ciò che però contraddistingue la
poliedricità del bartender è la sua professionalità, il savoir faire,
l’attenzione per il cliente, l’eleganza, la serietà e l’ospitalità!
Molto spesso il successo di un locale si deve proprio alle capacità istrioniche dei suoi bartender che sanno creare esperienze esclusive e memorabili per la loro clientela miscelando in modo sapiente ingredienti come spiriti, liquori e distillati, succhi, frutti, guarniture e, non meno importante, la capacità di accogliere le persone e farle sentire al centro della scena.
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