domenica, gennaio 12, 2025

Il cocktail nella storia

 

Finiti i brindisi delle feste natalizie, ma sempre desiderosi di aperitivi e apericene vari, mi sembra interessante ripercorrere la storia delle molte bevande alcooliche che il genere umano ha da sempre inventato ed ampliato…

CIN! Alla nostra salute!

L’alcol: le origini

Conosciuto già nel periodo neolitico (circa 8000 a.C.), l’alcol tremila anni dopo, con l’affermarsi delle prime civiltà, divenne un prodotto essenziale per diverse popolazioni e culture che ne facevano uso durante i momenti rilevanti della loro esistenza.

L’alcol nelle sue varie declinazioni veniva regolarmente utilizzato per i sacrifici offerti agli Dei, nei riti religiosi, per la benedizione che precedeva le battaglie, prima dell’esecuzione dei prigionieri, per celebrare vittorie, nei riti sacrificali, in occasione di nascite e matrimoni, partenze o decessi, per infondere coraggio, per curare malattie e come rimedio contro la fatica.

Intorno al 4000 a.C. l’alcol ebbe un ruolo fondamentale nell’Antico Egitto, paese in cui non vigeva alcuna legge sul consumo di alcolici e luogo in cui erano già presenti taverne e birrerie, vere e proprie fabbriche che producevano e vendevano diversi liquori e distillati.

All’epoca si producevano circa diciassette tipi di birra e circa venticinque tipi di vino, proposti sul mercato e consumati come un vero e proprio alimento, venivano impiegati a scopo terapeutico, utilizzati in occasione di riti religiosi o riposti nelle tombe come dono ai defunti e agli Dei.

Il cocktail nella storia

Recipienti di terracotta rinvenuti durante studi archeologici sulla vite condotti sulle rive del fiume Tigri dal professor Patrick McGovern dell’Università della Pennsylvania dimostrano come il cocktail sia nato addirittura ben 5000 anni fa.

Recentemente lo storico del bar David Wondrich ha trovato la parola “cocktail” riportata nel quotidiano The Farmer’s Cabinet del 28 aprile 1803, nel quale un anonimo raccontava in un articolo: “alle 11 bevvi un bicchiere di cocktail. Eccellente per la testa.”

Una prima spiegazione del termine “cocktail” è riscontrabile in un articolo di Harry Croswell, pubblicato sul quotidiano The Balance and Columbian Repository il 13 maggio del 1806.

Nel testo il giornalista rispondeva alla richiesta di chiarificazione del termine inoltrata da un lettore, dopo che questi aveva trovato tale parola in un articolo dello stesso Croswell pubblicato nel medesimo quotidiano la settimana precedente.

Nell’articolo l’autore raccontava di un repubblicano che aveva perso le elezioni per essersi giocata la reputazione acquistando alcuni drink e spendendo ben 24 dollari in cocktail.

In risposta all’attento lettore, il giornalista spiegava così il significato della parola cocktail: “Bevanda stimolante, composta da diverse sostanze alcoliche, zucchero, acqua e amaro, volgarmente chiamata Bittered Sling”.

Le Leggende

La più famosa leggenda, tramandata ormai da numerosi scrittori del settore, relativa all’etimologia della parola cocktail ha origine ai tempi della Guerra d’Indipendenza Americana (1775 – 1783), e vede come protagonista Betsy Flanagan, vedova di un rivoluzionario e proprietaria di una taverna a Four Corners nei dintorni di New York, la quale preparò un drink decorato con una piuma di gallo. Il piacevolissimo sapore della bevanda mise di buon umore gli avventori del locale, in quel periodo prevalentemente ufficiali francesi, i quali, in segno di ringraziamento, finirono per brindare alla salute della signora levando i bicchieri e gridando “Vive le Cock-tail!”, ossia “Viva la coda del gallo!”.

Sull’origine della parola cocktail troviamo un’altra leggenda ambientata a New Orleans, patria del jazz. Essa racconta di un farmacista di nome Antoine Amadee Peychaud che soleva somministrare ai suoi pazienti una mistura forte e tonificante a base di bitter e brandy, in seguito chiamata Peychaud Bitter. La miscela veniva servita in una coppa grande, simile ad un portauovo, chiamato in francese “coquetier”. La storpiatura della pronuncia da parte dei pazienti, poco pratici della lingua romanza, fece sì che “coquetier” divenisse “cock-tiy” e in seguito “cocktail”.

Di leggende sul cocktail e sulla sua origine se ne contano oggigiorno una trentina; storie provenienti da diversi paesi, tutte interessanti e valide da raccontare per intrattenere e incuriosire il cliente allietando la sua serata.

Bar-tender

Il come e il quando è iniziato il bartending, rimane tuttora un mistero, ma di certo questa pratica risale a migliaia di anni fa.

Già ai tempi dei babilonesi erano presenti le Taverne e nel codice di Hammurabi esistevano leggi scritte per regolamentare i comportamenti e i divieti per i tavernieri.

Si ritiene che i primi veri bartender risalgano ai tempi dei romani quando la cultura delle taverne si era largamente diffusa e si bevevano svariate tipologie di vini e bevande sotto forma di mix realizzati dall’oste stesso mescolando vino con erbe aromatiche e miele.

Prima del quindicesimo secolo la maggior parte dei bartender era costituita principalmente da Innkeeper, ovvero proprietari di locande che lavoravano dietro al bancone dei loro locali e producevano essi stessi prodotti a base alcolica come liquori e birra da servire alla propria clientela.

Il bartending, parola comparsa intorno al 1830, era considerato un mestiere poco reputabile e solo dal 19° secolo la percezione relativa a questa professione cominciò a cambiare.

L’uso di servire i cocktail iniziò a svilupparsi nel diciannovesimo secolo negli Stati Uniti, paese in cui, all’inizio del secolo, cominciarono a nascere i primi Saloon e dove, allo stesso tempo, si fece strada la moda di bere i Mixed Drinks così chiamati in America. Questo fenomeno portò il conseguente incremento del numero dei bartender la cui professione cominciò a diventare e ad essere riconosciuta come un vero e proprio lavoro.

Questo periodo fu chiamato la Golden Age dei saloon e dei bar d’hotel, proprio grazie al sempre più massiccio consumo di spiriti e liquori, spesso sapientemente miscelati in cocktail dal gusto intrigante e insolito.

Jerry Thomas detto Il Professore, è considerato il padre del bartending moderno grazie alle sue esperienze, ai suoi numerosi viaggi, ai locali gestiti, ai numerosi cocktail da lui creati e certamente anche per la sua abilità professionale dietro al bancone. Ma ciò che lo rese più famoso in tutta la comunità del bartending e degli amanti del buon bere fu soprattutto il suo libro del 1862 The Bar Tenders guide (or How to Mix Drinks), considerato il primo libro del suo genere: un completo compendio sui cocktail, sui prodotti alcolici e non, impiegati nella mixologia, e sulle tecniche di preparazione dei liquori e dei cocktail.

All’incirca nello stesso periodo arrivarono altri grandi personaggi come Harry Johnson, Leo Engel, William Schmidt, George Kappeler, F.C. Lawlor e William Boothby, bartender che contribuirono a loro volta allo sviluppo del bartending sia nell’invenzione di nuovi cocktail sia nel miglioramento delle preparazioni degli stessi.

Dopo la metà del diciannovesimo secolo in quasi tutte le grandi città europee venivano preparati e serviti i famosi Mixed drinks americani come il Mint Julep, il Crusta e il Cobbler.

Nel 1882 il Chicago Tribune fece una sorta di sondaggio chiedendo ai barman qual fosse il cocktail più alla moda e il risultato fu l’Old Fashioned, mentre verso la fine del diciannovesimo secolo dominò il Martini cocktail.

All’inizio del nuovo secolo le cose cambiarono, i cocktail cominciarono a evolversi, si tentavano nuove sperimentazioni e nuovi accostamenti tra diversi liquori e spiriti. Questa nuova spinta di innovazione fu però smorzata dalla Prima Guerra Mondiale e dal Proibizionismo che portò conseguenze disastrose a livello sociale ed economico colpendo in modo rilevante il mondo degli alcolici e della loro distribuzione e tutto il sistema economico collegato.

Molti bar vennero chiusi e di conseguenza i bartender rimasero senza lavoro costretti ad emigrare verso Cuba, Canada ed Europa. Tra questi ritroviamo il famoso bartender Harry Craddock che fece le valige all’indomani della proclamazione dell’inizio del Proibizionismo e andò a lavorare al Savoy di Londra per prendere il posto di un’altra grande barmaid che era Ada Coleman (quasi al termine della sua carriera).

La criminalità organizzata dilagante scatenò una guerra spietata per acquisire il controllo sulle vendite dell’alcol prodotto illegalmente; inoltre, per bere bevande alcoliche le persone si cimentavano in distillazioni di fortuna, di nascosto dalle autorità, utilizzando alambicchi artigianali. Spesso ne risultava un prodotto di pessima qualità, dal sapore a volte sgradevole, tanto che erano frequenti intossicazioni a volte con esito letale.

I trafficanti (bootlegger) vendevano alcol di scarsa qualità a prezzi molto alti mentre la corruzione dilagava tra gli agenti federali, i giudici e i poliziotti. Inoltre, dato da non trascurare, furono molti i milioni di dollari persi dallo stato americano per il mancato incasso delle tasse sull’alcol.

L’unico fattore positivo del Proibizionismo fu la nascita di nuovi drink grazie a nuove modalità di preparazione e all’inserimento nelle ricette di succhi di frutta, panna e molti altri ingredienti.

I barman americani che fuggivano dal Proibizionismo portarono la loro cultura del bar nella capitale cubana, talvolta perfino trasportando fisicamente il bancone e gli arredi del proprio bar.

Per tutto il periodo del Proibizionismo Cuba visse un’epoca d’oro per il bere miscelato: i Cantinero impararono molti cocktail americani e i metodi di lavoro dei bartender statunitensi creando a loro volta molte nuove miscelazioni che diedero origine a svariati nuovi cocktail.

I bar più rinomati si trovavano all’interno di alcuni hotel come il Nacional, il Sevilla Baltimore e l’Inglaterra, e in locali come lo Sloppy Joe’s, il Floridita, nel quale già operava il grande Constantin Ribalaigua, e la Bodeguita del Medio meta di molti americani famosi e facoltosi, attori, industriali e politici. Anche noti personaggi della malavita americana si recavano a Cuba per riunirsi e divertirsi durante il weekend bevendo alcolici senza temere e sottostare alle restrizioni introdotte negli USA, per poi tornare nel loro paese, come avvenne durante the Havana Conference, il famoso meeting tra i mafiosi capeggiati da Lucky Luciano.

In Europa il bere miscelato e i cocktail vivevano la loro golden age nei bar di Berlino, al Ritz di Parigi, all’Harry’ s Bar di Venezia oppure al Savoy di Londra.

In Italia il Movimento Futurista aveva preso piede anche nel mondo dei drink che diventavano sempre più fantasiosi, spesso serviti con l’accompagnamento di pezzetti di formaggio, di frutta o di cioccolata.

In questo periodo inoltre furono creati i cocktail più celebri e conosciuti oggigiorno, come

il Negroni al bar Casoni di Firenze,

il Bloody Mary all’Harry’s bar di Venezia,

l’ Hanky Panky al Savoy di Londra e

il Mimosa al White Lady,

creati in Europa per mano di barman anche loro famosi come Harry McElhone, Frank Meier, Ferdinand Petiot, W.T. Tarling, Torelli, Jean Lupiou, Petro Grandi, Fosco Scarselli e tanti altri.

Da sottolineare anche come tantissimi American bar nacquero nel vecchio continente in quest’epoca proprio per soddisfare i numerosi turisti americani i quali erano desiderosi di poter consumare prodotti alcolici a loro preclusi dal divieto della vendita di alcol e liquori nel loro Paese.

Al termine del Proibizionismo il Rum conquista un posto rilevante nel mercato per il semplice motivo che era economico da acquistare.

Don Beachcomber fu il primo ad aprire un bar in stile tropicale con cucina polinesiana, adattata al gusto americano dove si vendevano principalmente cocktail a base di rum e succhi di frutta tropicali con l’aggiunta di spezie, serviti nei bicchieri e in altri contenitori più bizzarri e fantasiosi.

Subito dopo seguì le sue orme un altro barman, Trader Vic. Questo tipo di locale si consolidò così da far nascere più tardi il movimento chiamato Tiki che durante la Seconda Guerra Mondiale divenne una vera e propria moda, non limitata solamente alle isole Hawaii e ad altre isole tropicali, ma esteso a tutte le parti d’America.

Negli anni ‘40 la vodka venne introdotta nella preparazione di numerosi cocktail come il Moscow Mule, il Bloody Mary e il Martini cocktail. Quest’ultimo viene citato per la prima volta con questa variante nel libro di Lucius Beebe, lo Stork Club del 1946, in cui la ricetta venne modificata con l’uso della vodka al posto del gin.

Questa variante divenne uno slogan con il famoso agente segreto James Bond, che nell’ordinare i suoi Martini cocktail ordinava la variante con vodka Shaken not Stirred!

Durante gli anni ‘50 e ‘60 andava di moda bere il Martini cocktail molto secco, ed alla fine degli anni Sessanta i Tiki bar e i cocktail cominciarono a tramontare.

Gli anni ‘70 e ‘80 vengono definiti gli Anni Bui o Dark Age nella cultura del bere, forse anche per il fatto che il presidente Jimmy Carter era contrario al consumo dell’alcol e contro le campagne pubblicitarie per promuoverlo ai consumatori.

Verso la fine degli anni ‘90 assistiamo alla riscoperta del cocktail e del mondo bar con la conseguente ripresa del consumo dei cocktail classici che vengono nuovamente richiesti e consumati.

A Milano, per esempio, esplode nuovamente la moda dell’Aperitivo, vero e proprio rito della quotidianità sociale, con la riproposizione di cocktail come l’Americano, il Negroni e l’Aperol Spritz accompagnati con stuzzicherie varie, sempre più elaborate.

I Tiki drinks cominciano ad essere nuovamente rivalutati, la moda del Flair diventa più popolare grazie anche al film Cocktails di qualche anno prima con Tom Cruise nelle vesti di barman acrobatico.

Il nuovo Millennio portò grandi cambiamenti nel mondo del bar. A New York cominciarono a riapparire gli Speakeasy, bar ‘segreti’ che furono famosi durante il periodo del Proibizionismo, e ritornarono in voga alcuni vintage drink come l’Old Fashioned, il Martinez cocktail, il Sazerac, il Ramos Fizz, il Mint Julep, i Cobblers e il French 75.

Negli anni a seguire arrivano i cocktail Molecolari realizzati con nuove tecniche, utilizzando ghiaccio sintetico, gelatine, spuma ed altri prodotti da laboratorio per esaltare profumi, aromi e gusto delle preparazioni. L’affinamento delle tecniche ha portato sia all’invecchiamento in botte di cocktail già miscelati che venivano poi serviti spillati come si trattasse di birra sia ad una fase in cui i drink sono stati proposti già imbottigliati, pronti per il consumo.

Oggi parliamo di veri e propri Laboratori ‘Lab’ nelle cantine e negli office dei bar dove si elaborano nuove tecniche di preparazione degli ingredienti, come la macerazione, l’essicazione e la distillazione.

Si lavora anche con la fermentazione degli ingredienti, che provengono da tutte le parti del mondo con svariate specie di piante, fiori, spezie ed altri ingredienti di cui non si era mai sentito parlare prima d’ora.

Sebbene però i cocktail creati ogni giorno in tutto il mondo siano numerosissimi, i più richiesti e prediletti dalla clientela restano sempre e comunque gli intramontabili Classici.

Inoltre, in questo millennio anche la figura del barman è cambiata, si è evoluta per rispondere alle nuove richieste di una clientela sempre più attenta ed esigente. Divenuto ormai un professionista a 360 gradi si occupa non solo della preparazione dei cocktail ma anche di altre numerose attività. I ruoli che riveste sono infatti molteplici: events manager, ambasciatore, consulente, docente, formatore, esperto del web, produttore, viaggiatore, alchimista, giornalista, scrittore e via dicendo, andando quindi a creare molteplici nuove specializzazioni strettamente legate alla sua figura di barman e al mondo del bar.

Ciò che però contraddistingue la poliedricità del bartender è la sua professionalità, il savoir faire, l’attenzione per il cliente, l’eleganza, la serietà e l’ospitalità!

Molto spesso il successo di un locale si deve proprio alle capacità istrioniche dei suoi bartender che sanno creare esperienze esclusive e memorabili per la loro clientela miscelando in modo sapiente ingredienti come spiriti, liquori e distillati, succhi, frutti, guarniture e, non meno importante, la capacità di accogliere le persone e farle sentire al centro della scena.

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