Da “Internazionale” del 29
Novembre 2024 - di Anna-Lena Schlitt, Die Zeit, Germania
La capacità di comprendere i
sentimenti delle altre persone si sviluppa durante l’infanzia, ed è importante
per avere buone relazioni. Da adulti possiamo migliorarla
Viviamo in un mondo caratterizzato
da violenza e aggressività: insultare gli altri pubblicamente e nei social
media è diventato normale e negli ultimi mesi in Germania ci sono state diverse
aggressioni contro i politici.
Ma anche nella vita quotidiana
spesso siamo poco bendisposti: alla cassa del supermercato siamo scortesi, tra
colleghe e colleghi i toni si accendono quando il lavoro diventa stressante.
Comprendere i sentimenti degli altri non è sempre facile, ma si può imparare a
farlo anche da adulti.
Noi umani siamo esseri sociali e
la nostra convivenza dipende da quanto riusciamo a capire cosa provano le altre
persone. Questo ci aiuta a prevedere il loro comportamento. Non si tratta solo
di una comprensione cognitiva, l’empatia riguarda la sfera emotiva: è la
capacità di immedesimarsi nei sentimenti e nelle emozioni altrui.
Chi ha relazioni basate sul
rispetto e la sensibilità riesce più facilmente a mantenerle forti e sane.
L’empatia facilita la comunicazione e la cooperazione, sia nella vita privata
sia sul lavoro: permette di evi tare i malintesi e di risolvere meglio i conflitti.
Inoltre, favorisce un
comportamento prosociale, ovvero ci motiva ad aiutare le altre persone e a
sostenerle in situazioni difficili. Con il mio gruppo di ricerca ci siamo
chiesti se si può imparare l’empatia.
Abbiamo mostrato a un gruppo di
volontari dei video in cui si vedevano delle mani ricevere stimolazioni
dolorose. Poi gli abbiamo fatto vedere come avevano reagito a quei filmati
altre persone: abbiamo mostrato reazioni empatiche e non empatiche. E il
risultato è stato che chi aveva assistito a una reazione particolarmente empatica
ha reagito poi mostrando una maggiore sensibilità.
Contemporaneamente abbiamo misurato con la
risonanza magnetica l’attività cerebrale delle donne e degli uomini e abbiamo
osservato una maggiore attivazione della parte anteriore della corteccia
insulare, la stessa area cerebrale che si attiva quando proviamo dolore. Più
quella zona era attiva, maggiore empatia prova vano. In altre parole, quando
abbiamo una reazione di vicinanza e solidarietà, comprendiamo i sentimenti
dell’altro anche al livello neuronale.
La capacità di essere empatici si
sviluppa tra il primo e il secondo anno di vita. In questo periodo impariamo a
distingue re noi stessi dagli altri. Solo quando ci riusciamo, possiamo capire
se stiamo reagendo a quello che prova un’altra persona.
Una forma preliminare di empatia
è il contagio emotivo: i bambini cominciano a piangere quando sentono un
altro bambino o bambina che piange, senza nemmeno saperne il motivo. Un po’
come succede con lo sbadiglio, l’emozione si tra smette dall’uno all’altro.
Non esiste però un “gene
dell’empatia”: la capacità di essere più o meno compassionevoli dipende da una
combinazione di predisposizione genetica e influenze ambientali. Dai nostri
studi è emerso però che si può impara re a essere più empatici e migliorare questa
capacità nel corso della vita.
Durante l’infanzia apprendiamo a immedesimarci soprattutto attraverso le figure di riferimento più strette, come i genitori, i nonni o altri componenti della famiglia. In seguito, entrano in scena anche educatori e insegnanti.
Ma pure da adulti possiamo
imparare qualcosa da amiche o amici, sul posto di lavoro o anche da personaggi
pubblici, come i politici.
Qualunque sia il nostro
modello di riferimento, gli studi hanno dimostrato che vivere in un ambiente
tollerante ci rende più empatici, anche se non conosciamo personalmente le
persone a cui ci ispiriamo.
Esempi di tolleranza
Tutti noi possiamo migliorare:
se lavoro alla cassa del supermercato posso fare un sorriso a una cliente
stressata.
O al contrario, se sono io a fare
la spesa, posso cercare di alleviare lo stress di chi è alla cassa dicendo:
“Non ho fretta, faccia con calma”. Spesso è già sufficiente.
Chi ha un ruolo dirigenziale può provare ad avere delle attenzioni nei confronti dei propri collaboratori. Per esempio, non sovraccaricando chi ha avuto un lutto e chiedendo se ha bisogno di supporto, oppure invitando un collega di cattivo umore a prendere un caffè.
Se sto litigando per un parcheggio, posso provare a mettermi nei panni dell’altra persona senza alzare subito la voce: forse ha avuto una giornata stressante o magari deve fare la spesa di corsa prima di prendere i bambini all’asilo? Magari a quel punto mi accorgo che quel parcheggio non è così importante quanto il sorriso di sollievo dell’altra per sona quando le cedo il posto.
Ci sono mille piccole cose che
possiamo fare ogni giorno. Ognuna e ognuno di noi può contribuire a rendere la
nostra società un po’ più comprensiva.
È importante ricordarsi che per
essere empatici dobbiamo prima di tutto essere emotivamente stabili. Se non
stiamo bene, pensare al benessere degli altri può diventare stressante. Per
questo è fondamentale prendersi cura di sé. Bisogna assicurarsi che la
pressione proveniente dal dolore degli altri non si sommi alle nostre
difficoltà.
Più siamo sereni ed equilibrati e
più è probabile che reagiremo in modo empatico. Le persone che si confrontano
ogni giorno con la sofferenza degli altri - come quelle che lavorano in
ospedale - dovrebbero imparare a canalizzare l’empatia. Hanno bisogno di
supporto, per esempio di una buona supervisione, per rimanere in sintonia con
il dolore degli altri, ma allo stesso tempo devono proteggersi.
È fondamentale essere
consapevoli della nostra forza interiore e ricordarci che non siamo del tutto
impotenti di fronte alla sofferenza degli altri.
Possiamo fare davvero qualcosa
per alleviare il dolore altrui, per esempio ascoltare un amico triste, portarlo
fuori per distrarlo, andare a trovare nostra madre in ospedale e occuparci del
giardino di casa sua.
Potremmo anche decidere di
dedicarci al volontariato.
Allora l’empatia crea qualcosa
di molto prezioso: l’aiuto.
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