Fino all’ottobre 1974, negli Stati Uniti, le donne avevano bisogno di un uomo che controfirmasse per aprire un conto corrente o acquisire una linea di credito. Anche se lavoravano, non potevano nemmeno avere una carta di credito a loro nome.
Il punto era che una donna poteva
restare incinta e perdere il lavoro. E quindi non avere più un flusso di danaro
a propria disposizione. Quindi niente conto e niente banca.
Finalmente, nell’ottobre del
1974, appunto, venne introdotto l’Equal Credit Opportunity Act, una legge
federale che proibiva le discriminazioni di razza e sesso quando si parla di
credito.
Il livello di discriminazione
per le donne era tale che nel 1978 otto donne si unirono per fondare una banca.
Non una banca qualunque: la U.S. Women’s Bank.
Il 14 luglio del 1978 la
gente si mise in fila nel centro di Denver per depositare i propri assegni e in
un solo giorno venne depositato un milione di dollari. La Women’s Bank è
rimasta su piazza fino al 1994, quando venne venduta alla Colorado Business
bank.
In Italia abbiamo i nostri
problemi, ma anche gli altri Paesi, persino gli Stati Uniti, hanno sempre avuto
difficoltà a mettere l’equità nel portafogli. Questo però non significa che il
problema è superato.
Una cosa le donne hanno dovuto
imparare negli ultimi decenni (e non solo relativamente al credito): non basta che i principi dell’equità siano scritti nelle
leggi perché l’equità stessa diventi pratica quotidiana.
In Italia nessuno vieta a una
donna di aprire un conto corrente. Ma quando si passa ai fatti, si vede che una
larga fetta di donne il conto corrente personale non ce l’ha.
Se va bene, le donne hanno un
conto cointestato.
L’ultimo aggiornamento è del 2020
e dice che le donne che non hanno un conto corrente, né cointestato né
condiviso, sono il 18%, in pratica una su cinque.
Tra quelle che il conto corrente
ce l’hanno, cioè l’82%, solo il 67% ha un accesso autonomo: come dire, il conto
ce l’hai, in teoria, ma poi in pratica a gestirlo è il cointestatario.
Secondo altre indagini le donne
senza un conto corrente sarebbero addirittura il 30%. In realtà, non sarebbe
difficile avere dati più dettagliati sulla situazione. Ma quando si parla di
credito entra in gioco la questione della privacy, e diventa difficile andare
in profondità.
Quello che si sa è in ogni caso
già abbastanza per rendere chiaro che le italiane sono ben lontane
dall’indipendenza economica, con tutte le conseguenze che ciò comporta.
Riassumibili in una sostanziale mancanza di libertà d’azione e reazione, anche
di fronte alla violenza di genere.
In questi ultimi anni molto si è
parlato dell’indipendenza economica femminile, persino con un certo stupore
davanti ai numeri.
Ma cosa c’è da stupirsi?
Siamo l’ultimo Paese in Europa
per tasso di occupazione femminile, dopo il Covid abbiamo fatto qualche passo
avanti, ma le donne che lavorano sono sempre 53 su 100. Le altre 47, quelle
che un posto ce l’hanno, poi, non se la passano benissimo. Nel senso che sono
molto più precarie degli uomini.
E quando vivi di contratti a
termine o a chiamata è chiaro che guadagnerai di meno del marito/compagno
perché, tra un contratto e l’altro, ci saranno sempre periodi in cui sei
costretta a rimanere a casa.
Per non parlare del part time,
“riservato” in gran parte alle donne che pure vorrebbero lavorare a tempo pieno
(il 60% del part time femminile è involontario). Metà orario, metà stipendio.
Tutto questo per dire che
il 53% delle donne che lavorano nella stragrande maggioranza guadagna meno dei
mariti/compagni.
In queste condizioni va già bene se
hai la firma su un conto in comune.
Il lavoro è la condizione
abilitante a monte di tutto.
Troppo spesso si parla di
indipendenza economica come se fosse un fattore a sé, slegato dalla situazione
lavorativa delle donne. Ma non ci sono soldi senza lavoro.
Il conto corrente personale è
termometro in sé della reale indipendenza economica di un individuo.
Ma come si possono creare le
condizioni perché ciascuna donna possa avere il proprio conto?
Il Corriere della Sera ne parlerà
a Milano, sabato 23 novembre alle 17 con il sindaco Giuseppe Sala e con
Alessandra Perrazzelli, membro del direttorio della Banca d’Italia e del
supervisory board della Bce.
Da Milano — in uno dei territori nel Paese con il più alto tasso di occupazione femminile — può partire una campagna per mettere nelle condizioni TUTTE le donne di avere un proprio conto corrente, gestito autonomamente?
Le fabbriche, gli uffici, i
negozi dove lavorano possono essere i luoghi dove promuovere questa
opportunità?
Il conto corrente di base —
uno strumento già esistente, definito da un decreto del ministero dell’Economia
—può essere il veicolo per raggiungere questo obiettivo?
È a partire da queste domande che si vorrebbe costruire una riflessione. Lanciando una sfida a istituzioni e associazioni di rappresentanza: passare dalle dichiarazioni d’intenti alla pratica.
In altre parole, il conto
corrente, quantomeno quello cointestato, è un diritto.
Su questi temi altri Paesi c’è movimento. In Francia — dove fino al 1965 nessuna donna sposata poteva detenere danaro a nome proprio, quindi niente conto corrente — nel 2021 è stata varata una legge che introduce l’obbligo di versare lo stipendio o la pensione su un conto bancario o postale. Proprio o cointestato. Non è il conto corrente personale per tutte, ma è già un bel passo avanti.
Ora tocca a noi. La giornata per l’indipendenza (e contro la violenza)
Il Corriere della Sera,
con la regia del blog @La27ora, organizza per sabato 23 novembre, una
sequenza di incontri in collaborazione con Anteo-Palazzo del Cinema e Cadmi-Casa
delle donne maltrattate.
- Alle 10.00 in Sala Astra, si discute di violenza e prostituzione con Rachel Moran e Reem Salem.
- Poi, con la regista e attrice Michela Cescon, faremo prove libere di respirazione. Ci sarà anche la cantautrice Giulia Mei.
- Nel pomeriggio si riprende con la proiezione del film Familia, presente il regista Francesco Costabile.
- Alle 17 si chiude discutendo della proposta concreta di cui parla in questo articolo Rita Querzé. Ci si prenota qui
«Gestire le proprie risorse economiche è l’unica possibilità per le donne di rendersi autonome, libere e per realizzare le proprie aspirazioni».
Con questa consapevolezza è stata
lanciata, la campagna di raccolta fondi in favore del Fondo Autonomia di D.i.Re
- Donne in Rete contro la violenza. D.i.Re – Donne in Rete Contro la
Violenza
Attiva fino al 30 novembre,
l’iniziativa vuole supportare le donne che stanno cercando di costruirsi una
vita autonoma dopo aver subito violenza e che non dispongono dei mezzi
economici essenziali. Possono così avere le risorse economiche per saldare la rata
per l’acquisto della casa, pagare l’affitto o le bollette, comprare un
elettrodomestico, iscriversi a un corso di formazione, prendere la patente,
intraprendere un’attività imprenditoriale o lavorativa. BPER
insieme a D.i.Re a sostegno delle donne | BPER Banca
Contributi già erogati per le attività 2024: 232 mila euro per un totale di 83 contributi.
Inoltre, sono 56 le
organizzazioni socie che hanno fatto richiesta per sostenere i percorsi di 103
donne e 192 tra figli e figli.
Con la nuova edizione, supportata da Bper, ha già confermato una donazione di 100 mila euro.
«È un progetto di
inclusione e di attenzione dove ci vogliamo focalizzare sulla violenza
economica».
Secondo i dati di D.i.Re, il
34,6% delle donne che accedono ai loro centri ha subito violenza economica e
una su tre non percepisce reddito.
Il 42% non ha un conto corrente,
in Italia solo il 56,5% delle donne lavora a fronte del 70,2% della media Ue.
In più le donne guadagnano il 42% in meno rispetto agli uomini.
Numeri da cui emerge chiaramente
come la violenza economica sia più diffusa di quanto si pensi.
Migliorare e aumentare le competenze economiche nel mondo femminile diventa così un passo fondamentale per liberarsi da forme di violenza più subdole di quella fisica, come la violenza psicologica ed economica, anche se i comportamenti fisici violenti non devono più essere tollerati.
La consapevolezza regala competenza e la competenza regala libertà.
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