dal Corriere della Sera - Il Tempo delle Donne - di Rita
Querzè
È terminata ieri a Milano l’undicesima edizione della festa-festival il Tempo delle donne. Ma non si cada in errore: più che di una chiusura si è trattato di un inizio.
La tre giorni di incontri era incentrata quest’anno sul tema del lavoro femminile.
Con un titolo che è anche una rivendicazione: pari occupazione, pari reddito, pari libertà.
Siamo consapevoli che il percorso per arrivare a un equilibrio reale è ancora
lungo. Per questo il faro acceso dalla tre giorni in Triennale sul tema del
lavoro femminile non verrà spento.
Due strade, una scelta
Si tratta di una attenzione
necessaria anche perché l’inanellarsi degli incontri ha mostrato chiaramente
come quello che prima era considerato un «problema delle donne» oggi sia ormai
un problema della società nel suo insieme. Riguarda anche gli uomini. Senza il
lavoro delle donne non c’è ripresa della natalità. Non c’è sostenibilità della
previdenza. Non c’è crescita. Siamo a un bivio: da una parte una società con
poche donne al lavoro, bassa produttività, minore ricchezza, servizi in
ritirata. Dall’altra un contesto con più occupazione femminile,
esternalizzazione di parte del lavoro di cura che da gratuito diventi così
retribuito, più produttività, più servizi pubblici (nidi ma non solo), più
entrate contributive e fiscali. Si tratta di scegliere, uomini e donne insieme.
I tre divari da colmare
L’inchiesta collettiva che ci ha portato a queste conclusioni è iniziata alla vigilia dell’8 marzo. Abbiamo indagato tre fronti: la partecipazione delle donne al lavoro, la carriera e le retribuzioni. Risultano evidenti tre divari.
Il primo: ogni 100 donne quelle che lavorano sono 52 mentre ogni 100 uomini lavorano in 70: c’è un gap di 18 punti — uno dei più alti in Europa — tutto da colmare.
Il secondo: per ogni ora lavorata le donne in Italia nel settore privato guadagnano il 15,4% meno in un uomo.
Il terzo: ogni 100 dirigenti le donne sono 21 e gli uomini 79.
A monte, a generare questi
fossati è una divisione iniqua del lavoro di cura. Il 70% del lavoro domestico
gratuito è a carico delle donne. Il sistema produttivo, di conseguenza,
penalizza fin da subito le lavoratrici, nonostante i livelli elevati di scolarizzazione,
perché parte dal presupposto che saranno meno disponibili proprio a causa degli
oneri domestici che ricadono ancora su di loro. Persino le tanto ricercate
laureate in materie STEM (materie scientifiche) a cinque anni dalla laurea guadagnano 200 euro al mese
meno dei colleghi maschi, come ha evidenziato un recente studio Arel e JTI
Italia.
Da dove ripartire
L’obiettivo principale dei nostri
incontri è stato quello di andare oltre il frustrante racconto delle disparità
per segnalare vie d’uscita. La prima è sfruttare al meglio gli strumenti che
abbiamo a disposizione. In particolare, la certificazione di genere (Uni/Pdr
125). Fare sì che aumentino le imprese che la adottano e che la utilizzano
stabilmente intraprendendo così un percorso che incrementa l’equità. La seconda
è legata al potenziamento dei servizi: nidi ma anche tempo pieno, sgravi
fiscali per chi si fa aiutare da colf, badanti e baby-sitter. Offrire insomma
alle famiglie soluzioni per esternalizzare una parte del lavoro di cura. La
terza sono gli incentivi all’occupazione «buona» delle donne. Se oggi una donna
su cinque abbandona il lavoro alla nascita del primo figlio è anche perché può
contare solo su impieghi precari o comunque meno retribuiti di quelli dei
compagni. A proposito di retribuzioni, poi, un’opportunità per fare passi
avanti è offerta dal recepimento entro il giugno 2026 della direttiva Ue in
materia.
Nuovo attivismo
Fare tutto questo richiede
politiche coordinate e risorse da mobilitare nel medio termine. Con misure
monitorate e confermate solo quando portano risultati. Si tratta di un
obiettivo che sfidante è dir poco. Le quaranta-cinquantenni, per non parlare
delle sessantenni, sanno che non toccherà a loro beneficiare dei vantaggi che
possono derivare da un mondo del lavoro più equo. Ma hanno anche chiaro che le
loro proposte, i loro sacrifici e la loro capacità di tenere il punto sono i
mattoni che, uno sull’altro, possono consentire ai nostri giovani di accedere a
un contesto migliore.
Il cambiamento non può che fondarsi su un nuovo attivismo per l’equità che coinvolga anche gli uomini. Lo abbiamo visto al Tempo delle donne: sempre più uomini prendono posizione.
D’altra parte, un’organizzazione del lavoro che lasci spazi anche per il
privato non serve alle donne da sole ma alle coppie. E ai loro progetti.
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