venerdì, settembre 06, 2024

dal Festival della Comunicazione di Camogli: LA SPERANZA di Maurizio Ferraris


 Dal Corriere della Sera del 6 settembre - pag. 32

La Speranza è il tema dell’undicesima edizione del Festival della Comunicazione di Camogli (GE), che si terrà da giovedì 12 a domenica 15 settembre. 

http://www.festivalcomunicazione.it/

Il filosofo Maurizio Ferraris riflette su uno dei sentimenti più sfuggenti.

SIAMO UMANI. SPERIAMO. 

La fiducia nel futuro è un dono oscuro, ma è ciò che ci distingue dai computer.

«Ho assiduamente cercato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini, a non piangerne, a non odiarle, ma a comprenderle». Ecco una delle frasi più celebri di Baruch Spinoza, ma anche più famosa è la confutazione che ne fa Friedrich Nietzsche, per il quale il comprendere è la somma di questi impulsi contrastanti. Chi ha ragione? Tutti e due: il primo descrive l’Intelligenza artificiale, il secondo quella naturale. Ed è dunque da Nietzsche che dobbiamo prendere l’avvio per capire che cosa facciamo quando pensiamo. Giacché pensare non è solo calcolare, come vogliono alcuni, ma nemmeno semplicemente provare delle emozioni, come credono altri, ma un amalgama di fattori, alcuni ovvi, altri forse un po’ meno. Proviamo a elencarli.

Incominciamo dalla sensibilità. Si tratta di un elemento onnipresente nella nostra esistenza, dalla nascita alla morte, e in tutto quel corso di vita determina il nostro essere nel mondo. Ora, questo essere nel mondo non è semplicemente contemplazione, anzi, in effetti non lo è quasi mai. È ricordo, attesa, piacere e dispiacere, tutti elementi che non si possono trovare in un automa. E che fanno parte, sin dall’inizio, dell’intelligenza, del pensiero, che è, anche, toccare dei picchi e cadute di desiderio, tentazione e resa, come scriveva Joseph Conrad, o delle fitte di rimorso, riprendendo Vittorio Sereni.

Poi c’è la finalità. Non è necessaria una grande sottigliezza filosofica per capire che la mancanza di senso costituisce una grave lacuna esistenziale; per riprendere ancora una volta Nietzsche, teorico e cavia della mancanza di senso, è meglio un senso qualsiasi che nessun senso. Ora, che cosa fa sì che il senso, la direzione, il possesso di fini sia così importante perché la vita sia tale? Semplicemente il fatto che la vita, come processo storico e biologico, segue un percorso, una direzione, dalla nascita alla morte. Questa è una caratteristica che equipara gli umani a ogni altro animale, ma apre un abisso tra gli organismi e i meccanismi. Questi ultimi sono certo programmati per un fine, ma si tratta di una finalità che viene dall’esterno, e che di per sé non suscita né richiede alcuna volontà: un coltello non proverà mai il desiderio di tagliare, perché ciò avvenga è necessario l’intervento di un agente umano. Il quale non ha tratto la propria volontà da niente, se non dal fatto di vivere, di essere inserito in un processo organico e in un mondo in cui esistono coltelli e oggetti da tagliare, nonché ragioni per farlo.

Abbiamo parlato di ragioni, e con questo chiamato in campo la razionalità. Che non è un semplice ragionare, un far di conto con il pensiero, ma è definire un orizzonte di motivazioni, come quando ci si chiede per quale ragione qualcuno abbia fatto qualcosa. In questo senso, a torto la ragione viene considerata come il contrario della volontà: ne è il coronamento. Ci sono stati di grazia e trasparenza in cui la pulsione diventa ragione, e determina il fine, il modo e il valore di un obiettivo. Inutile dire che poco di tutto ciò si può trovare nell’animale non umano, se non altro perché è un bene, o una condizione, rara e accidentata nello stesso animale umano; e che sarebbe vano cercare qualcosa di simile nella macchina, che, come tale, riceve i propri fini soltanto dall’esterno.

I meccanismi mentali

Pensare non è solo calcolare né solo provare delle emozioni, ma un amalgama di fattori

Se questa è la ragione, bisogna chiarire la natura della volontà, che abbiamo appena chiamato in causa. Uno dei più celebri, anzi, proverbiali, detti filosofici, è l’appello di Antonio Gramsci all’ottimismo della volontà e al pessimismo della ragione. È una sentenza che coglie una intuizione psicologica molto viva.

Ci sono tante situazioni in cui, affidandosi alla ragione, sembra che non ci sia alcun motivo per sperare (teniamo da conto questo verbo, ci tornerò fra poco). Tutte le strade sembrano sbarrate, i conti sono chiusi, a nostro svantaggio, e rien ne va plus. Malgrado questo, se seguiamo la contrapposizione fra ragione e volontà, quest’ultima continua a darci dei suggerimenti e vuole indurci a provare ancora. Ma se davvero questo sforzo fosse senza ragione, allora la volontà si rivelerebbe una cattiva consigliera. In realtà, quello che chiamiamo «ottimismo della volontà» è una ragione come facoltà dei fini che non si rassegna al pessimismo o alla depressione, e che ci spinge a compiere ancora uno sforzo, a spingere e a tendere ancora in una direzione, a non disperare, anzi, a sperare.

E qui veniamo all’ultimo punto, che riguarda la speranza. Una volta, scrivendo a un amico ed ex collega di università, Erwin Rohde, Nietzsche, che ormai da anni aveva abbandonato la professione e si era impegnato in un avventuroso errare, confessò che non gli pareva vero di essere stato un tempo anche lui un filologo, di essere appartenuto a quella razza di «animali speranzosi». In realtà, neanche i meno inclini, non dico alla filologia, ma alla fede e alla carità, riescono a fare a meno di questa terza virtù teologale che è la speranza, e la prova ne era proprio Nietzsche, che scriveva quelle righe dal fondo della disperazione. La speranza è un elemento costitutivo del pensiero, proprio come la disperazione è il pensiero nel suo stato terminale.

Elementi in comune

Condividiamo con gli animali il dolore, la felicità, il lutto. Non è certo che condividiamo la noia

Ed è un elemento eminentemente umano. Condividiamo con castori, oche e gatti la sazietà, l’abitudine, il dolore, la felicità, il lutto. Non è certo che condividiamo la noia. Ancora meno certo è che gli animali non umani possiedano quel dono oscuro e talvolta spietato (perché può ingannare, fallire, o dileguarsi nella depressione) che è la speranza: l’attesa di qualcosa che venga dal futuro e che ci salvi dando senso al presente e al passato, redimendo fatiche, fallimenti e malinconie. Ora, ciò che offre l’intelligenza artificiale non sembra essere la speranza, o meglio, se la dà non è perché la possegga in proprio, ma in quanto può far sperare o disperare qualche umano.

Ecco dunque che cosa significa pensare: sentire, aspirare, volere, ragionare, darsi dei fini, e soprattutto sperare, o disperarsi. Qualcosa, o molto, di tutto questo si manifesta negli animali non umani. 

Nulla invece rimane agli automi. Ecco qualcosa in cui non dobbiamo sperare o disperare, riservando questi stati d’animo, con i loro altalenanti riflessi, alla nostra condizione umana.

Il Festival della Comunicazione di Camogli, di cui Umberto Eco è considerato il padre nobile,  prevede oltre agli incontri e alle “lectio” anche laboratori, mostre, dialoghi e spettacoli serali.

 

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