Dal 27 giugno per un mese insieme
al quotidiano, in collaborazione con Laterza, il libro di Alessandro Vanoli “Storia
del mare” in un viaggio infinito che parte dalle origini.
Dai grandi navigatori alla crisi
ambientale.
La dedica che si legge in
apertura del libro di Alessandro Vanoli Storia del mare, è molto
poetica:
«A Pedrag Matvejevíc e Folco Quilici. Per i
giorni trascorsi e i sogni».
Il mare per lo storico, studioso e divulgatore bolognese, è infatti tantissime cose. Non ultima quella che ci porta ai confini del razionale, dove il lettore viene invitato a lasciarsi andare, ad aprirsi all’immaginario, ai miti e — per l’appunto — ai sogni citati nella dedica di Vanoli a due grandi autori. Il volume è una storia del mare davvero in tutti i sensi: racconta la geologia, gli uomini delle coste, le scoperte, le navi, le guerre, ma anche e soprattutto i pesci e gli altri esseri marini. Uomini a animali vengono tenuti insieme nel corso di questo racconto infinito da un collante invisibile, che, grazie alla scrittura di Vanoli, ci restituisce parte di quello stupore che gli abissi ci hanno sempre trasmesso. Questo grande libro del mare inizia in un infinito passato, quattro miliardi di anni fa, raccontando una geologia antica e gli inizi della vita. E poi giù negli abissi, per riemergere tra barriere coralline, zone acquitrinose, scogli e spiagge. E poi la storia (i miti biblici e omerici), le civiltà (fenici, greci, romani), le rotte dei mercanti, le bussole, le caravelle, Cristoforo Colombo, Magellano, Vespucci, i pirati dei Caraibi e i tesori nascosti. Sino ad arrivare al presente, ovviamente, alla crisi ambientale e allo scioglimento dei ghiacci. Perché la storia del mare ci ricorda che alla fine siamo solo una specie tra altre specie: siamo parte del mare ed è questa, forse, la cosa che più conta in questa avventura millenaria.
Qui anticipiamo il primo capitolo:
Mi sa che debba cominciare così una storia del mare.
In principio era l’acqua. Ma non come la immaginate voi.
In principio era un’acqua scura, nauseante, scossa da onde gigantesche.
Davanti, una costa di montagne nebbiose e di lontani vulcani incendiati. E il
cielo era rosso, acceso da bagliori gialli sotto una fitta, monotona
pioggia di cenere; oppresso dall’incombente, immensa sagoma infuocata della
Luna.
Doveva essere qualcosa del genere, la Terra, quattro miliardi
di anni fa: non c’era nulla di respirabile, nulla di bevibile, eppure il
mare era già lì.
Se ci pensate, la cosa non è affatto ovvia; e merita anzi di porsi la
prima domanda che conta: per quanto acida e colma di sostanze tossiche, come
ci era finita sulla Terra tutta quell’acqua?
Facciamo allora un lungo passo indietro. Sino a un’origine ancora più remota.
Quasi un miliardo di anni prima, nel ramo secondario di un’immensa galassia a spirale. Quando una massa di gas e polveri aveva cominciato ad addensarsi. Residuo di stelle ormai già morte: idrogeno ed elio soprattutto, ma anche carbonio, azoto, ossigeno, silicio e molto altro. Una grande nube che stava collassando sotto la forza della propria gravità, facendo nascere al centro una stella, e attorno ad essa una danza di materia in rotazione, tra cui già si distinguevano altri più piccoli centri di aggregazione. Un po’ come se dentro la galassia avesse cominciato a formarsi una mini-replica della galassia stessa: l’inizio ancora incerto di quello che un giorno sarebbe stato il nostro sistema solare.
Tra questi nuclei che attorno alla stella si stavano aggregando, c’era
pure la Terra. Quattro miliardi e mezzo di anni fa era già diventata un
calderone ribollente di roccia fusa, in orbita attorno a un Sole appena nato. In
uno spazio ancora talmente fitto di materia, da essere bersagliata
continuamente da una fitta pioggia di rocce e comete, quando non si trattava
addirittura di mezzi pianeti. Come quello che un giorno di quei tempi
primordiali finì per cozzarle contro. Un’unione devastante lanciò nello spazio
ogni sorta di detriti e di residui. Così tanti da dare origine a un nuovo corpo
celeste. Era nata la Luna.
Poi vennero altri milioni di anni. E in quella sfera di magma che
ancora era la Terra, fondeva di tutto, ma pur sempre secondo un preciso ordine
fisico e chimico: i materiali più pesanti, ricchi di metallo, scendevano verso
il nucleo; quelli meno densi salivano sempre più verso la superficie. Ci
volle un tempo smisurato perché tutto questo accadesse, ma alla fine, quattro
miliardi di anni fa, la Terra aveva una sua crosta primitiva. E, cosa
ancora più stupefacente, quella crosta era circondata dalle acque. Dal primo
oceano del mondo.
Così dunque eccoci qua, sulla superficie di un pianeta ancora alieno e
ostile: non c’è ossigeno ovviamente, solo gas tossici, come monossido e
diossido di carbonio e metano probabilmente. Un cielo strano, terribile per
molti versi: dominato da una Luna immensa, ancora incendiata di lava e ancora
vicinissima alla Terra. Un cielo dove tutto scorre velocissimo: ogni
sei ore un’alba, ogni sei ore un tramonto. E tutt’attorno il cozzare dei
corpi in caduta dallo spazio, lo scuotere violento dei terremoti e delle
eruzioni. Sembra incredibile l’idea di un oceano in un simile inferno. Eppure,
lui è già lì.
Torniamo allora alla domanda di partenza: come ci è arrivata l’acqua?
Da fuori, questo è ovvio: dallo spazio, come d’altronde tutto il resto. In che
modo, però, non è affatto chiaro. Per anni si è ipotizzato che fosse giunta
attraverso il bombardamento di meteoriti e comete ghiacciate, nel periodo in
cui il pianeta cominciava a raffreddarsi a sufficienza per poterla
trattenere. Ma oggi qualcuno ipotizza, con buone ragioni, che potrebbe
essere stata già presente nei grandi materiali che inizialmente si
unirono a formare il pianeta: prima, nel periodo più caldo, rilasciata sotto
forma di vapore; poi, nel periodo di raffreddamento, condensata in acqua sulla
superficie.
Ma la cosa davvero straordinaria è un’altra. Forse già a quel tempo, a
poter ingrandire una goccia di quell’acqua vuota, profonda e silenziosa, si
potrebbe vedere qualcosa di, a dir poco inaspettato. Minuscoli
filamenti, come formati da una catena di palline: strani microscopici organismi
unicellulari simili alle forme che oggi indichiamo come cianobatteri o
alghe azzurre.
Ormai abbiamo prove in abbondanza di tutto questo: i loro fossili
sono stati trovati in Australia e risalgono a circa 3,5 miliardi di anni fa.
E grazie ad alcuni sedimenti scoperti in Groenlandia che contengono accumuli di
grafite (cioè, carbonio, la materia prima della vita), si è giunti alla
conclusione che la loro presenza potrebbe essere parecchio precedente. Eccolo,
insomma, il principio; quel fatto strepitoso che sin da subito ci appare
intimamente legato all’acqua: non sappiamo per davvero come andò — forse
qualche reazione chimica in quel brodo primordiale, forse qualche amminoacido
giunto dallo spazio — ma lì, in quel mare originario, c’era già la vita.
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