È giunto il momento di porsi
domande molto più profonde su cos'è l'Unione e su ciò che dovrebbe diventare.
I leader europei hanno deciso:
l'Ucraina, la Moldavia, la Georgia e tutti i paesi dei Balcani occidentali
entreranno nell'Unione europea.
Le buone argomentazioni non
mancano ma, di fronte a Putin determinato a distruggere tutto ciò che
rappresenta, l'UE non ha margine di errore, soprattutto dopo l'elezione di
Donald Trump alla Casa Bianca.
Tuttavia, il processo è stato
avviato senza un piano preciso né un accordo sugli elementi essenziali.
Lungi dal rafforzare l'UE, questa
decisione potrebbe ostacolarne l'azione, privandola al tempo stesso della sua
efficacia.
È una corsa a capofitto mentre
l'Europa non ha ancora una politica estera, una difesa unificata, un bilancio
degno di questo nome.
Inoltre, questi leader non hanno
imparato nulla dall'illusione turca vent'anni fa o dalla Brexit?
In Europa nulla è mai scontato,
soprattutto quando il nazionalismo ritorna prepotente.
Non è più il momento di fingere che l'unione fa la forza
senza prima occuparsi di creare unità.
Sylvie Goulard, già
europarlamentare e collaboratrice di Romano Prodi nel periodo della sua
presidenza della Commissione (2001/2004) ci consegna un interessante saggio
dove si misura con un tema di grande attualità: l’allargamento dell’U.E. come
deriva incalzante e persino ineludibile su cui sembrano convergere da tempo i
leader del vecchio continente più di quanto siano stati e siano tuttora
impegnati al consolidamento dell’U.E.
L’autrice pone una questione
procedurale ed enfatizza la sua propedeuticità rispetto all’ingombrante assillo
della crescita numerica dei Paesi membri dell’Unione: fondamentalmente il
tema riguarda l’aspetto identitario di un rassemblement di quasi 400 milioni di
abitanti degli attuali 27 Stati membri che dovrebbe essere da tempo la
principale preoccupazione dei governi avvicendatisi nei Paesi che sono parte
dell’U.E. Senza o con la Turchia si passerebbe infatti a 36 o 37 Stati
membri.
Il quesito che pone l’autrice –
come si intuisce dal titolo del libro, “Grande da morire” – è se possano essere
perseguiti insieme due obiettivi reciprocamente complementari: l’allargamento
dell’U.E e la speculare pre-condizione della preventiva messa a punto di un
“progetto comune e condivisibile”.
I governi sembrano da tempo
invece più preoccupati dell’estensione quantitativa come alternativa al caos e
alle pressioni di ingresso nell’U.E.
Se la questione non è sommativa
ma identitaria, utile e qualitativa non devono essere interpretare come remore
o titubanze le valutazioni di opportunità circa la costituzione di un’Europa
extra-large: l’esempio di Cipro, in parte occupata dalla Turchia o quello delle
reciproche rivendicazioni nazionalistiche tra Serbia e Kosovo, fanno riflettere
sul fatto che si corre il rischio di importare instabilità in Europa, più
che esportare stabilità.
Gli ingressi nel corpaccione
europeo non sono un processo di aggregazione tout-court poiché la molteplicità
dei contesti e delle tradizioni depone per una metabolizzazione graduale e
partecipata.
Scritto a gennaio, il libro tiene
conto dell’elezione di Trump ma non delle successive e disorientanti sue prese
di posizione: sul conflitto russo-ucraino e sull’Europa stessa.
Se Trump abbandona l’ONU e mette
in discussione la NATO ciò non è irrilevante rispetto al seguito che ci
attende.
The Donald si schiera con Putin
contro l’Europa, ed ecco allora che il problema dei confini, delle adesioni e
dei trattati suscita ulteriorità che i singoli Stati europei non possono
affrontare da soli e pone un preciso interrogativo: è l’U.E. in grado di
condividere al suo interno risorse istituzionali, rappresentative e di difesa?
Se si potesse riavvolgere il
nastro della Storia la risposta migliore potrebbe essere l’ideale di Jean
Monnet, padre fondatore dell’Europa: ‘Uniamo degli uomini, non coalizziamo
gli Stati’.
Ci troviamo tuttavia di fronte ad
una situazione drammatica: gli ombrelli dell’U.E. e della NATO devono essere
aperti senza indugi a protezione di Kyiv e di un popolo massacrato da una
guerra criminale.
Le frammentazioni originariamente
radicate e mai del tutto rimosse tra gli stessi Paesi fondatori dell’U.E.
riducono il dibattito attuale alla retorica dei buoni propositi, ‘fanno passare
sotto silenzio gli sforzi che devono fare, al massimo si limitano a menzionare
la capacità di assorbimento, come se l’Unione Europea non fosse altro che una
banale spugna”.
Ciò che conta è il potere
negoziale: Europa ed U.E. sembrano esserne scarsamente dotate, non si
materializzano azioni condivise foriere di incisività, le frammentazioni e le
sfumature prevalgono sugli intendimenti comuni necessari.
La Dichiarazione di Schuman del
lontano 1950 conserva la sua attuale rilevanza: “La pace mondiale non potrà
essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che
la minacciano”.
Ora l’U.E. è parte integrante
delle potenzialità latenti e dei pericoli incombenti.
Sylvie Goulard pone un
interrogativo che reclama un’urgente risposta: se sia più utile perseguire
l’obiettivo principale dell’Europa XXL come somma di Stati e di diplomazie o se
invece sia necessario edificare un fortilizio di valori condivisibili in nome
dei popoli e della suprema difesa della democrazia.
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