PENELOPE
di Stefania Peverati
Scende
la tenebra ancora e – ancora sola, disfo la tela.
Mi
muovo piano, compio gesti accorti, con gli occhi socchiusi nella penombra.
Mi
sento così stanca questa notte, sebbene in apparenza non ne abbia ragione.
Non
ho solcato onde tumultuose, non ho valicato aspre alture,
non
ho consumato le mie suole lungo strade desolate di pietre sconosciute.
Non
mi sono allontanata dal mio telaio, dalla mia stanza a picco sul mare, dalla
mia finestra aperta sull’oscurità,
da
cui posso ascoltare laggiù, le onde infrangersi sulla scogliera,
e
in alto nel cielo ammirare la luna, rotonda come una madre benevola.
Eppure
sono andata così lontano, in questo mio viaggio invisibile e lungo, lungo e
lento, lento e profondo.
Profondo
- quanto è profonda la mia solitudine.
A
me non è occorso recarmi altrove, per sostenere grandi sfide.
A
me non è occorso andare a cercare orribili creature da affrontare su isole remote,
perché
ho potuto incontrarne negli abissi del mio cuore, negli antri bui della mia
mente.
Non
mi sono sfuggiti, né io ho potuto negarmi a loro.
Qui,
tra le quattro mura di questa stanza, siamo stati soli - io e i miei mostri.
Notte
dopo notte, li ho guardati diritto negli occhi, li ho affrontati a mani nude,
con
movimenti precisi, puliti e ripetuti.
Mentre
disfacevo la mia tela, uno a uno li ho debellati.
Uno
a uno, meticolosamente, di loro mi sono liberata.
Ogni
fibra che ho sciolto da questa tela è un vincolo allentato intorno al mio
cuore,
ogni
nodo districato è un soffio di vento che porta profumi di zagare e di mare e
gonfia le vele dell’anima mia,
ed
ora, in piedi sul davanzale di questa finestra spalancata, la sento – la brezza
che mi sfiora la pelle,
e
la vedo – quella carezza di luce laggiù all’orizzonte, è proprio in
quell’immensità che voglio andare a riposare.
Mancava
un ultimo nodo, un passo nel nulla soltanto – ora sono pronta a salpare.
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