Quella passata è stata la
settimana della maturità. Un rito che non segna solo la fine di un
percorso scolastico, ma rappresenta una tappa emotiva per chi la vive e per chi
la ricorda ogni anno come passaggio di crescita.
La maturità, in fondo, è fatta
di sentimenti. Quelli romantici, come dimostra chi ancora canta Notte
prima degli esami davanti al portone della scuola — è successo al liceo Michelangiolo di Firenze.
E quelli più ansiosi, come
raccontano i dati di una ricerca condotta da Skuola.net con l’Associazione nazionale Di.Te: rivela
che oltre 6 studenti su 10 affrontano l’esame con un mix di emozioni
negative difficili da gestire che trasformano lo smartphone nella
principale valvola di sfogo.
Alla prova di italiano, il
40,3% dei maturandi ha scelto la traccia sul tema del rispetto, ispirata a
un articolo di Riccardo Maccioni, giornalista di Avvenire,
intitolato: “Rispetto è la parola dell’anno Treccani. E serve
per respirare.”
Un passaggio dell’articolo
recita: “Un auspicio, che porta con sé il desiderio di costruire, di
usare il dizionario non per demolire chi abbiamo di fronte, ma per provare a
capirne le ricchezze, le potenzialità.”
“Rispetto” — inteso come “sentimento
e atteggiamento di stima, attenzione, riguardo verso una persona,
un’istituzione, una cultura, espresso con parole o azioni” — è
stata infatti scelta dall’Istituto Treccani come parola del 2024. Valeria
Della Valle e Giuseppe Patota, condirettori del vocabolario, spiegano: “La
mancanza di rispetto è alla base della violenza esercitata quotidianamente nei
confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del
mondo animale.”
Eppure, oggi, quella parola
risuona fuori posto.
Nel linguaggio dei leader
politici, nei titoli dei media, nei post sui social.
Il rispetto si sgretola sotto il
peso di un lessico bellico che trasforma le persone in “bersagli”, le
città in “obiettivi”, le vite in “danni collaterali”.
Le dichiarazioni ufficiali
ricorrono a metafore chirurgiche, come “operazioni di precisione”, per
sterilizzare la violenza. Nel frattempo, la retorica dello “scontro di
civiltà” si fa strada nei notiziari, mentre il dolore reale diventa
invisibile.
È scegliere la complessità, quando sarebbe più facile semplificare.
È ascoltare, quando sarebbe più comodo accusare.
È ammettere di non sapere, quando l’istinto è quello di urlare.
Questo weekend ci siamo svegliati
in un mondo ancora più confuso, con nuovi fronti di guerra. Uno di questi, meno
visibile, è quello digitale.
In Israele, le autorità hanno
intensificato il controllo sulle comunicazioni interne. Mercoledì
scorso, il censore militare ha annunciato che ogni contenuto riferito ad
attacchi, spostamenti militari o luoghi colpiti — anche su app private — dovrà
essere approvato preventivamente. Chi non rispetta le regole, potrà incorrere
in sanzioni penali. Scenario ancora più complesso si verifica nella Striscia di
Gaza, dove la rete diventa uno strumento di controllo, in quanto l’azione
sistemica di interruzione delle comunicazioni a seguito di bombardamenti e
blocchi imposti da come risultato l’isolamento comunicativo che ostacola i
soccorsi, impedisce la comunicazione e silenzia le persone.
Il messaggio è chiaro: controllare
la narrazione è una priorità strategica.
Anche l’Iran ha rafforzato la
stretta: accesso a internet limitato, social e app bloccati. Fino a poco tempo
fa, milioni di cittadini aggiravano le restrizioni con l’uso di VPN. Oggi,
anche questi strumenti sono in gran parte inutilizzabili. Le autorità giustificano
la scelta come risposta agli attacchi informatici israeliani.
Il risultato? Un’informazione
militarizzata. Le piattaforme digitali, da spazi di racconto e
denuncia, diventano luoghi di sorveglianza e silenziamento.
Nel frattempo, nel resto del mondo, invece, il pericolo non è
solo la censura, ma soprattutto la disinformazione.
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale, inquinare la conversazione
pubblica è sempre più facile. Un esempio recentissimo sono due contenuti
diventati virali sulle piattaforme social: uno che annuncia, con tanto di
immagini, l’attacco dell’Iran alla Tour Eiffel in Francia e
un altro, più sofisticato, che mostra un’enorme esplosione che, secondo alcune narrazioni,
sarebbe stata ripresa proprio in Iran. In realtà, si tratta di un
vecchio video che riguarda un altro Paese, la Siria.
Insomma, è evidente che la
gestione del conflitto passa anche dal racconto che se ne fa. E chi controlla
le parole, controlla anche — almeno in parte — la percezione degli eventi.
Su comunicazione e social
media vogliamo segnalarti l’ultimo interessante numero di “Fuori dal PED”, la
newsletter di Valentina Tonutti che analizza come la
comunicazione tra Stati, soprattutto in contesti di guerra, abbia adottato il
linguaggio dei social e del content marketing, trasformando anche gli eventi
drammatici in contenuti virali. A partire da un tweet provocatorio tra Iran e Israele
del 2018, l’autore riflette sull’uso sempre più spregiudicato di meme, gif e
emoji nella comunicazione istituzionale, con esempi di Israele e Ucraina.
Nessun commento:
Posta un commento