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venerdì, novembre 08, 2024

Donne: Violenza istituzionale e vittimizzazione secondaria

 

Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate Milano | CADMI

VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA, DI COSA SI TRATTA?

Ce la raccontano continuamente le donne che accogliamo e la viviamo noi stesse operatrici, in prima persona, perché colpisce le donne che si trovano nel difficile percorso di uscita dalla violenza, ma anche chi è al loro fianco mettendo argini alla violenza, come il Centro Antiviolenza.

LA VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA

Nei percorsi istituzionali, cioè quelli in cui sono coinvolti organi della pubblica amministrazione, accade spesso che siano negati o non riconosciuti i presupposti della violenza, che si metta in discussione la parola della donna, che le sue scelte di vita siano giudicate: tutte azioni che hanno come risultato quello di colpevolizzarla per la violenza subita, trasmettendo al maltrattante un senso di impunità. Spesso vengono assunti provvedimenti che impongono alla donna scelte fatte da altri. Si sviluppano così meccanismi di controllo e prescrizioni che la rendono un soggetto da tutelare, di fatto impedendole scelte autonome e libere.


CADMI – Casa delle Donne Maltrattate esiste dal 1986 e in questi decenni ha contribuito a un significativo cambiamento nella società. Allora nessuno parlava di violenza, il fenomeno era sommerso e chi si poneva al fianco delle donne per aiutarle erano solo altre donne, attraverso la pratica della relazione. Il contrasto alla violenza era sul nascere, poco strutturato, ma proprio per questo anche le aspettative erano minori.

Oggi si è creato un paradosso. La violenza di genere sembra sulla bocca e sulla tastiera di tutti, se ne discute sui social, ne parlano i giornali; gli impegni e le promesse, anche da parte delle Istituzioni, si moltiplicano, e la comunicazione ingenera nuove speranze.
Ecco perché, quando una donna si trova di fronte a un carabiniere scettico, quando in un Tribunale si sente chiedere “perché non se ne è andata prima?”, quando un giornale titola “Lui era un bravo ragazzo” o un qualsiasi utente sui social commenta “Ma cosa ci faceva in giro a quell’ora vestita così?”, l’impatto con una realtà radicalmente diversa dai discorsi formali è ancora più drammatico.

E lo stesso vale per noi, ogni volta che, per esempio, portiamo la situazione di una donna madre all’attenzione di un servizio sociale e la vediamo giudicata come genitore, equiparata al padre maltrattante, oppure verifichiamo che una denuncia non è stata accolta e la donna viene invitata a pensarci bene.

COME AGISCE LA VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA?

La donna è accusata di strumentalizzazione
Si suppone che abbia degli obiettivi non dichiarati
La si accusa di mettersi nel ruolo di vittima
Viene stigmatizzata
Si nega il trauma subito
Il maltrattamento viene minimizzato e derubricato (per esempio a lesioni)
La donna si trova a denunciare in luoghi che non le garantiscono privacy
Non viene valutato il rischio collegato alla violenza
La difficoltà a uscire dalla violenza viene attribuita a cause sbagliate (dipendenza affettiva, fattori personologici), e non agli effetti e alle dinamiche stesse della violenza.

Un caso emblematico

Il 17 settembre 2024 Raffaele Meola viene assolto in appello dall’accusa di violenza sessuale nei confronti di una donna, perché quest’ultima aveva reagito alla molestia dopo 20 secondi.
La sentenza che assolve l’ex sindacalista Raffaele Meola per violenza sessuale è un segnale allarmante sulla percezione della violenza e del consenso.

L’assoluzione si fonda su argomenti che, in un certo senso, aderiscono all’idea di una sessualità maschile come naturalmente predatoria. Si sostiene, infatti, che non ci sia stata minaccia, che la donna non fosse in una posizione di subalternità e che non abbia manifestato esplicito dissenso nei primi 20-30 secondi dell’aggressione. Inoltre, si minimizza la violenza con l’argomento che l’uomo fosse “di stazza assolutamente normale”, quindi la donna avrebbe potuto, secondo la logica del tribunale, facilmente scappare.

Ma cosa stiamo dicendo alle donne con questa sentenza? Che la violenza sessuale non è tale se non avviene sotto minaccia esplicita? Che un comportamento equivoco ma evidentemente indirizzato al sesso non è violenza, perché la donna non ha reagito immediatamente?
Il concetto di “toccamenti repentini” come non violenti contraddice il principio fondamentale del consenso, che deve essere chiaro, senza ambiguità.

Ancora una volta, viene scaricata sulle donne la responsabilità di difendersi prontamente e di dimostrare chiaramente la propria resistenza. Serve una riflessione urgente sul concetto di consenso e sull’approccio delle istituzioni giudiziarie ai casi di violenza sessuale.

Le istituzioni non solo vengono meno alle loro stesse promesse di tutela e giustizia per la donna, ma spesso rincarano la dose agendo su di lei una violenza ulteriore.

Cosa produce tutto questo? Da una parte demotiva la donna, dall’altra dà forza al maltrattante. Non aveva forse ragione lui quando diceva, per esempio, “tanto nessuno ti crederà”? Inoltre, attribuendo alla donna la responsabilità della violenza in cui si trova, l’istituzione produce la sua vittimizzazione e allo stesso tempo conferma il vittimismo del maltrattante. Quante volte le donne ci hanno raccontato di essersi sentite dire frasi come “è un litigio in famiglia, non gli vorrà mica rovinare la vita per questo?”.

Con queste caratteristiche, la vittimizzazione secondaria la troviamo ovunque: nel sistema giudiziario, nei servizi sociali, nella sanità, nei media e nella società intera. 


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